+39 (più Trentanove)
di Massimo Reina
31 anni fa
l'indimenticata tragedia dell'Heysel, una ferita aperta
nel cuore di ogni tifoso juventino e di ogni essere
umano.
Ci
sono tragedie che ciascun individuo vive in maniera più
o meno intensa a seconda della propria sensibilità, e
che hanno un impatto visivo e una portata emotiva tale,
da farli diventare un qualcosa che supera i confini
privati di coloro che ne sono state vittima
direttamente. Ed è forse proprio per questo che, a
volte, entrano per sempre a far parte della vita e dei
ricordi di un’intera generazione. Non importa se queste
tragedie ci abbiano colpiti direttamente o, viceversa,
abbiano coinvolto dei perfetti sconosciuti. Se le
abbiamo vissute dal vivo o attraverso le immagini di
televisioni e giornali. Dinanzi alla sofferenza di
uomini, donne e bambini molti di noi non riescono a
rimanere insensibili, empatizziamo con loro fino a che
il loro dolore diventa il nostro. È accaduto per gli
attentati dell’11 settembre del 2001, per quello del
campus universitario in Kenya o per il massacro di
Parigi nel 2015. Accadde così anche per la terribile
strage dello stadio Heysel di Bruxelles, avvenuta la
sera del 29 maggio del 1985. Una sera che per chi
scrive, come per milioni di tifosi juventini di ogni
età, doveva essere di festa e di speranza per una
vittoria molto attesa, e che invece si trasformò in una
tragedia soprattutto per le famiglie di molti di quegli
innocenti presenti allo stadio, un luogo che dovrebbe
servire per riunire la gente per assistere a uno
spettacolo di sport, e non per vederle morire. Anche i
trentanove angeli caduti quella sera sognavano di
assistere a una partita di calcio combattuta, e quasi
tutti loro probabilmente di battere il Liverpool per
poter finalmente versare lacrime di gioia per un trionfo
della Juventus in Coppa Campioni, dopo averne pianto di
amare dopo la finale del 25 maggio del 1983 contro
l’Amburgo. Quella del cross sbagliato di Magath che si
infilò alle spalle di Zoff. Quella di una Juventus
abulica, irriconoscibile e arrendevole a dispetto dei
sei campioni del mondo più il fenomenale Michel Platini
che aveva in squadra. Ci ritrovammo invece tutti a
versarne di rabbia e dolore per quella gente che si
ammassava disperata in un angolo degli spalti, nel
tentativo di trovare una via di fuga dalla follia di
criminali senza onore, e che a un certo punto si
ritrovarono schiacciati per il crollo di una tribuna che
non resse alla calca. Per persone che non conoscevamo,
ma che in quel momento ci sembravano familiari. Lontane
anni luce da noi, ma al contempo così maledettamente
vicine, quando inquadrate dalle telecamere, che sembrava
di poterle toccare con mano, incoraggiare, accarezzare.
A volte pareva possibile perfino stringerle per le mani
e tirarle via da quella massa di corpi schiacciati l'uno
sopra l'altro, per portarle al di qua del televisore,
nella sicurezza del salotto di casa. Quanto ci sarebbe
piaciuto farlo.
E
invece eravamo tutti impotenti davanti a quelle
terribili immagini, all’uomo che correva sulla pista di
atletica verso il campo in cerca di soccorso per il
giovane ferito che reggeva in braccio, come una moderna
e vivente riproduzione della Pietà di Michelangelo, alle
lacrime di quel papà col figlioletto con le mani nei
capelli, appena usciti miracolosamente dalla massa di
corpi che li stava per schiacciare. E poi gli sguardi
attoniti di chi invece era rimasto sotto e forse stava
per morire, sopraffatto dal peso degli altri. Quelli di
chi a un certo punto erano fissi. Quelli di chi non si è
potuto mai più rialzare ed è rimasto lì per terra,
immobile, senza avere mai più la possibilità di tornare
a casa, di riabbracciare la propria moglie e i propri
figli. Di raccontare magari loro di quella brutta
serata, e di potergli dire ancora una volta quanto li
amavano. I loro occhi. Sono proprio quelli, forse più di
ogni altra immagine, anche la più cruenta, che sono
rimaste impresse nella memoria di chi scrive. Occhi che
scrutavano nel vuoto, occhi che imploravano aiuto e che
sembravano chiedere a se stessi e al mondo intero perché
stesse accadendo tutto quell’orrore in una serata che
doveva essere di festa. Da allora sono passati
tantissimi anni ma per molti è impossibile dimenticare
quella tragedia, anche in un Paese come il nostro pronto
a girarsi dall’altra parte e a far finta che non sia
successo niente quando si spengono i riflettori su una
vicenda. A tenere vivo il ricordo ci pensano i familiari
delle vittime, le loro iniziative e quelle dei tifosi
oltre chi fa il mestiere di giornalista e nel suo
piccolo vuole che certe situazioni rimangano impresse
nel cuore e nella mente delle persone, affinché da un
lato non possano mai più ripetersi in futuro, dall’altro
si renda sempre omaggio a trentanove innocenti caduti
quella sera del 29 maggio del 1985. Anche con un
articolo, una preghiera o un semplice pensiero. Chi
scrive lo fa a modo suo, ogni volta che la Juventus
gioca una partita. Ogni volta che quei colori scendono
in campo, soprattutto allo Juventus Stadium, mentre
sugli spalti migliaia di tifosi bianconeri incitano la
squadra. Quegli occhi spaventati o peggio ancora spenti
dell’Heysel, li immagina di nuovo vivi e accesi di
felicità. Fantastica di vedere seduti ai loro posti
sugli spalti, o in piedi dietro a uno striscione,
trentanove angeli che cantano, gioiscono e fremono per
la partita. E a quegli imbecilli che vigliaccamente
scrivono "- 39" risponde idealmente, "no, sono +39.
Trentanove spettatori in più che si uniscono ai 41.475
dell’arena". Anche chi, come il giovane Nino Cerullo
tifava Inter e perì nella tragedia al fianco del
cognato, Rocco Acerra, che aveva voluto seguire in
Belgio per affetto, ma anche per quella sportività che,
quando il calcio era ancora una cosa semplice,
permetteva talvolta ad alcuni tifosi di mettere da parte
la passione verso questa o quella squadra, per amore
verso lo sport e per quel senso di appartenenza, quel
sentimento di italianità di cui si è perso traccia da
tempo. Una genuinità, un modo di concepire il calcio e
lo sport in generale, che perì la sera di trentuno anni
fa, come oggi.
Fonte: Tuttojuve.com
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Audio: Rai (Bruno Pizzul)
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"Notti di coppe dei
campioni…"
di Dario Ricci
Accesi
la tv, quella sera del 29 maggio 1985: mi aspettavo di
vedere i miei idoli in bianconero pronti a giocarsi la
Coppa dei Campioni contro i Reds, nella partita del
secolo. Ma appena premuto il tasto dell’accensione (a
casa dei miei nonni il televisore si attivava ancora
così), dal centrocampo dell’Heysel un gendarme a cavallo
piombò nel mezzo del salotto. Lo capii nei mesi, forse
negli anni successivi, che la mia età dell’innocenza era
finita in quel preciso istante. Perché riuscire a
comprendere, a 12 anni, che si può morire per una
partita di calcio, è un’abnorme mostruosità che ancora
non m’è riuscita. C’è l’amore infinito per lo sport, la
passione, il tifo, le vittorie e le amarezze del tifoso
e del cronista, ma non c’è niente da fare: quel
poliziotto a cavallo è ancora oggi nel mio salotto. E mi
fa un effetto strano preparare microfono e valigia verso
Berlino, a 30 anni esatti da quella sera, con quel
ricordo ancora solido, vivido e conficcato nella carne,
mentre spero di essere testimone di una festa del calcio
e dello sport, di qualunque colore sia alla fine
rivestita. Insano e ingenuo il pur umano istinto di
legare il significato di quel pezzo di latta in palio
sabato, all’infame tragedia del 29 maggio 1985. Resta
solo sgomento, silenzio, e il dovere del ricordo: ben
venga la partita del ricordo che la Federcalcio italiana
e quella belga stanno provando a organizzare per
l’autunno prossimo; ben venga il simbolico ritiro della
maglia numero "39" da parte della Nazionale azzurra.
Gesti semplici che salvano dall’abisso dell’oblio.
Fonte:
Radio24.ilsole24ore.com
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Heysel 29.05.1985: un
Padre e sua Figlia
di Claudia Rossi
Buongiorno,
mi chiamo Claudia ed abito a Terni, in Umbria. Vi scrivo
perché il ricordo di ciò che accadde all'Heysel nel 1985
non mi abbandona. Mai. Questo non solo per il carattere
così terribile delle dinamiche legate alla tragedia, ma
anche perché fu solo un caso che io e mio padre non
fossimo là. Non l'ho mai raccontato, qualche volta
soltanto l'ho ricordato parlando con mia mamma. Ma sento
il bisogno di dirlo a qualcun altro, qualcuno che possa
capirmi e non mi consideri "strana" ad avere questi
pensieri, a non riuscire a dimenticare. Era il 1985,
avevo 14 anni ed era una calda primavera. La scuola
stava finendo, le vacanze erano alle porte. Insomma,
eravamo in quella fase allegra dove l'unico pensiero era
quanto caldo fosse il sole e come e quanto ci saremo
divertiti quell'estate. Mio padre riuscì ad acquistare i
biglietti per la finale allo stadio Heysel e tutto
contento corse a casa per dircelo. Era un operaio e
faceva i turni, ma era riuscito ad avere tre giorni di
ferie organizzandosi con i suoi amici in squadra con
lui. Era felice perché i biglietti per la finale erano
introvabili, ma lui riuscì a trovarli. Ma era riuscito a
trovarne soltanto due. Quindi mia madre sarebbe dovuta
restare a casa. Sono molto attaccata alla mia famiglia
ed abbiamo fatto sempre tutto insieme, così, anche se a
malincuore, dissi a mio padre che non sarei partita
senza mia mamma. Quindi lui cedette i due biglietti del
settore Z ad un amico (che andò a Bruxelles, ma non
entrò perché vide troppi tafferugli e poca sicurezza già
nei dintorni dello stadio e questo lo salvò). La sera
del 29 Maggio 1985, quando ci sedemmo tutti insieme per
vedere la partita, il nostro sangue si fermò. Mio padre
era bianco in viso e non faceva altro che dire "guarda
lì, sta succedendo un casino, guarda... Ci saranno
sicuramente dei morti, guarda... Uno sopra all'altro,
come fanno ad essere ancora vivi...". Eravamo senza
parole... Non trovo parole nel descrivere cosa vuol dire
guardare in diretta una tragedia simile. E tutto si
amplifica, pensando che in mezzo a quel disastro
potevamo esserci anche noi. Mio padre era seduto
incredulo al tavolo del salotto, mia madre sul divano
con le mani sulla bocca e le lacrime agli occhi. Io mi
alzai e, d'istinto, andai a toccare la spalla di mio
padre. Rimanemmo così per qualche minuto. Pizzul parlava
e descriveva ciò che stava accadendo, ma sospettavamo
fosse ancora peggio. La partita si giocò lo stesso, ma
non c'era più gioia né senso. Era come mangiare
segatura. I giorni successivi capii che la scelta che
feci fu perfetta. L'amore per mia madre salvò sia me che
mio padre. Ma non sono più riuscita a non pensare più a
quella sera, come se un filo invisibile ed inspiegabile
mi tenesse in qualche modo legata a chi era lì e non ce
l'ha fatta. Spesso ripenso a quel giorno di primavera,
alle 39 persone che hanno perso la vita… C'è soprattutto
un uomo, un padre che non riesco a dimenticare. I giorni
successivi, comprai tutti i giornali che pubblicarono
articoli riguardanti la tragedia dell'Heysel ed uno, in
particolare (che conservo ancora, ma non ho più
guardato) pubblicò moltissime foto. Tra queste, una mi è
da sempre rimasta impressa nella mente e nel cuore: la
foto di un padre che, piangendo, teneva tra le braccia
la figlia: l'estremo pallore, la posizione del corpo, i
visi di quelli attorno a loro, tutto lasciava intuire
che quella ragazza non c'era più. Non so il nome di
questo signore, ma il suo viso e quello della figlia
sono stampati nella mia mente. Forse perché avremmo
potuto essere io e mio padre al loro posto, forse è per
questo che non riesco a dimenticarli. Non so dove siano
i sopravvissuti alla strage dell'Heysel, non conosco i
loro visi, ma sia loro che i 39 di quella sera sono e
saranno sempre nel mio cuore. Un abbraccio sincero.
Claudia
POST
SCRIPTUM: "Sono onorata di dare il mio consenso a
pubblicare la mia mail ed altrettanto mi emoziona sapere
che sarò ulteriormente legata a quella sera, anche se da
sempre sono legata a tutte le vittime ed ai loro
familiari da un filo invisibile, come già detto. Solo il
forte amore per mia madre mi ha impedito di sedere
insieme a mio padre nel settore Z. Purtroppo lui non c'è
più da quasi dieci anni, ma anche lui in qualche modo si
sentiva "legato" nell'anima alle 39 vittime
dell'Heysel. Ho parlato di voi a mia madre ed insieme
siamo tornate a quei giorni del 1985: anche lei non ha
mai dimenticato. Colgo l'occasione per sottolineare che
anche i suoi sentimenti sono uguali ai miei. Anche lei
si è sempre sentita in qualche modo "legata" a quella
sera. Ieri ne abbiamo parlato, abbiamo ricordato e ci
sono venuti i brividi. Ci siamo commosse. Grazie ancora
per avermi rivelato il nome di Giuseppina Conti: adesso,
non so perché, mi sento un po' più serena. Con infinito
rispetto ed affetto. Un abbraccio a tutti i
sopravvissuti e a chi è rimasto a piangere quei 39
cuori". Claudia
Rossi
Fonte:
Associazionefamiliarivittimeheysel.it
© 31 ottobre 2022
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