Giovanna Bacci, tifosa
della Fiorentina, scrive una lettera ai familiari delle
vittime dell'Heysel.
"La porti un bacione a
Firenze"
Riceviamo e
pubblichiamo una toccante testimonianza di affetto per
la Memoria dei nostri cari, inviataci ieri dalla
sensibilissima signora Giovanna da Firenze.
Mi
chiamo Giovanna, ormai ho 58 anni e anche quest’anno ho
celebrato il mio, molto intimo, giorno della memoria.
Avete ragione: la memoria è importante. Vi scrivo
soltanto per farvi sapere che molte, moltissime persone,
anche quelle improbabili come me, ricordano quella notte
e ciò che è accaduto. Magari, così come ho fatto io, lo
ricordano in silenzio, senza dirvelo perché pensano che
sia insignificante. Ma ricordiamo. E vi ringraziamo
perché continuate a ricordare. Andate avanti ! Il vostro
lavoro, il vostro dolore, la vostra dedizione è
importante per tutti. Vi lascio la mia testimonianza.
Forse inutile, ma per me è solo un pensiero posato su
quelle 39 tombe.
L’anniversario. Mia sorella
Daniela è morta a 26 anni il 29 Maggio del 1984. Una
morte improvvisa, assurdamente causata da una cisti che
ha rotto l’arteria femorale. Una manciata di minuti e
tutto era finito per sempre. Esattamente un anno dopo,
sulla mia bella Firenze cade lentamente un tramonto
dolce che ha i colori dell’estate. Ceniamo prestissimo,
in silenzio. Io ho vent’anni ma da quando è morta
Daniela vivo la vita come attraverso un velo. La mia
allegria, la mia energia, esistono a momenti, per il
resto è una commedia tragica dove fingo emozioni che non
riconosco. Ho iniziato l’Università, ai nuovi amici non
dico nulla perché sono imbarazzata dall’imbarazzo che
provoca il dolore dell’Altro. Lo risparmio a tutti. È
difficile sopravvivere a chi amiamo. È duro chiedersi
perché non io. È duro consolare e non chiedere
consolazione. Capisci che ogni respiro di tuo padre, di
tua madre, è solo perché tu sei ancora viva. Non puoi
più sbagliare, non più. Dopo cena, mia madre va a
dormire. In realtà si chiude in camera per poter
piangere da sola. La sento singhiozzare. Non posso
lasciare mio padre da solo… C’è Juve-Liverpool, per
fortuna. La Coppa. Io e lui siamo da sempre tifosi
Viola, abbonati da quando ho memoria. Dacché son grande
però, lui va in tribuna, io in curva Fiesole: tutte le
volte che il tempo è brutto gli auguro per scherzo che
piova "a vento", così un pochino si bagnano anche loro.
Quell’anno sopporto anche la neve, perché il gioco del
pallone è il più bello del mondo. Ci credo davvero, è
una passione bellissima, quasi forte come l’Amore.
Quella sera mio padre è terreo. Come me, come la mamma,
si fa forza schiantato da un dolore che sopportiamo a
stento e che, "quella" sera, sembra più acuto. Ma c’è
Juve-Liverpool, la speranza è che forse riusciamo a non
pensare per un paio d’ore. Sono grata di questa
opportunità; riesco persino a immaginare che sarà bello
vedergliela perdere anche questa volta. Mio padre no,
lui è davvero uno sportivo: se gioca una squadra
italiana spera sempre che vinca. Se invece non vince va
bene lo stesso, per lui avrà sempre vinto la Migliore.
Accendiamo la tv, lui sulla sua poltrona, io su quella
"del popolo", cioè l’altra.
La voce di Pizzul,
rassicurante. Per fortuna ci sono cose che non cambiano
mai. Le prime immagini. "Maremma quanta gente…". "Sì,
ma, boh, che stadio… Ci si lamenta del Franchi…".
All’inizio non capiamo. Ascoltiamo poco il commento, più
che altro cerchiamo di parlare tra noi per non stare in
silenzio. Nel vedere quel caos, ce la prendiamo subito
con gli italiani, le telecamere inquadrano solo loro,
chissà che avranno combinato… Poi, ce la prendiamo con
la polizia, soprattutto io, che ogni domenica, in curva,
ho la sensazione di essere assediata e invece lì, a una
finale di Coppa, vedo tre gatti in divisa. Poi, ce la
prendiamo con tutti. "Insomma, guarda che casino… "Ovvìa,
su", per una partita ! Guarda come hanno ridotto lo
stadio ! La gente che aspetta… Chissà che sete… Ci
saranno bambini… E questi continuano a voler fare a
botte… Mah, sempre la stessa storia. Eh, la mamma ha
ragione a prenderci per grulli perché la domenica si va
allo stadio !". Lentamente tra noi cala il silenzio. Ma lo stesso non vogliamo
capire. Un morto è una tragedia, una catastrofe, un
morto è Daniela. Alcuni morti, 24 morti, 36 morti dentro
uno stadio sono incomprensibili. Iniziamo a chiederci
sottovoce se sia il caso di giocare… "È successo
qualcosa di grosso, questa volta hanno esagerato,
bisogna dare un segnale !". No, non si dovrebbe giocare.
Concordiamo. Ma l’Ordine pubblico, la Sicurezza… Mio
padre è sempre stato un uomo di buon senso. Le immagini
continuano a scorrerci davanti agli occhi. Il babbo ora
è immobile, impietrito, ed io non oso nemmeno guardarlo.
Siamo sprofondati dentro le nostre poltrone. Muti e
attoniti. Inizia la partita. Dobbiamo guardarla, siamo
entrambi senza alcuna forza di reagire, non abbiamo il
coraggio di dire all’altro che ne abbiamo abbastanza,
perché è "quella" sera… Va bene, va bene tutto, pur di
non parlare ancora di Daniela. Guardiamo, guardiamo.
Dopo un po’, invece, cediamo: le lacrime inondano prima
il viso di mio padre, poi il mio. Mi alzo, mi rannicchio
nella sua poltrona, tra le sue braccia, e piangiamo
insieme.
Piangiamo per ognuno di quei
morti perché abbiamo finalmente capito… Ed ognuno di
loro si chiama Daniela, ha il suo viso, i suoi
bellissimi capelli ricci e il suo profumo. Ognuno di
quei morti diventa nostro, come lei. E tra i singhiozzi
la chiamiamo e chiamiamo quelle povere madri, i padri, i
fratelli, i figli di quelle persone che non conosciamo.
In quei momenti ci sentiamo noi due, la loro famiglia.
Sappiamo quanto soffriranno e mentre ci stringiamo l’uno
all’altra, come naufraghi, stringiamo tutti loro. Quando
ci sembra di non aver più lacrime, spegniamo la tv e, in
silenzio, andiamo a letto anche se non dormiremo. Non
abbiamo visto il goal, né sentito Pizzul chiedere il
permesso di gioire. Non abbiamo visto la Juve alzare la
coppa. Non abbiamo visto il giro della vittoria. Ci
vorranno giorni per capire davvero, per appena intuire
cosa è sommariamente successo. Ci vorranno mesi, anni,
per sentire il sapore autentico del disgusto. Mio padre
ed io non abbiamo mai più parlato di quella sera. Troppo
dolore e persino la vergogna di non aver aiutato l’uno
il dolore dell’altra, di essere crollati, di non essere
stati forti mentre l’altro cedeva. Ma da allora ho
sempre ricordato, insieme a mia sorella, i morti
dell’Heysel. Ogni anno, giorno più, giorno meno.
Giovanna Bacci
(NdR:
concessa autorizzazione alla pubblicazione
su questo dominio della mail)
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"L'Heysel alla Tv"
di Giuseppe Barreca
Questa
è la storia di un bambino. Undici anni e una
incontrollabile passione per il calcio e per la
Juventus. Una passione smodata che non lo fa pranzare o
cenare quando c’è una partita; che rende le sue
domeniche spesso cariche d’ansia, d’attesa e poi di una
gioia irrefrenabile o di un’enorme tristezza. Un bambino
un po’ eccessivo. Per questo il papà spesso cerca di
distrarlo, di fargli amare altre cose; ma non ci prova
più di tanto, perché è un bambino bravo a scuola. Dunque
il papà gli permette di lasciarsi andare mentre guarda
in TV o ascolta alla radio le partite della Juventus. E
poi questa sera nulla può distogliere il bimbo dalla
televisione; il papà lo sa e non dice nulla. Anche a lui
piace il calcio. Il bimbo quella sera mangia poco, è
molto eccitato: è appena tornato da una gita con la
scuola sul fiume Po e non sta più nella pelle, in attesa
dell’inizio della partita. È la finale della Coppa dei
Campioni, l’unica coppa europea che la Juve non ha
ancora vinto, la coppa più prestigiosa, che la squadra
insegue da anni, dopo aver perduto ben due finali: con
l’Ajax nel 1973 e con l’Amburgo nel 1983. Il bimbo è
impaziente di vedere i suoi eroi, con la maglia a
strisce bianco-nere, scendere in campo. Perché questa
volta è sicuro che vincerà la Juve: quella coppa non può
sempre essere stregata. Anche se l’avversario, il
Liverpool, è uno squadrone, composto da giocatori
fortissimi, esperti. Ma forse un po’ decadenti. Per
questo il bimbo, che ha seguito tutta la cavalcata della
Juve quell’anno, è fiducioso.
A
cena il bimbo mangia poco, ha lo stomaco chiuso per
l’agitazione. La gita sul fiume Po è già dimenticata,
perché ora c’è solo la Juve. La gita è stata bella, con
i compagni di scuola non si è parlato d’altro che di
calcio, la "Gazzetta" è stata la compagna fedele del
giorno. Il bimbo non si ricorda quali luoghi ha
visitato, né dove ha pranzato. Ha in testa solo la Juve,
stasera, il divertimento, il pallone, l’emozione, il
cuore che batte in attesa della partita. Manca poco alla
partita, sono quasi le sette e mezza. Il bimbo è
impaziente. La Tv trasmette in diretta dallo stadio di
Bruxelles, lo stadio Heysel. È il 29 maggio 1985. Il
bimbo è seduto sul divano vicino al papà, ma capisce
subito che c’è qualcosa che non va. Perché il papà fa
commenti strani, quasi preoccupati, mentre guarda le
immagini. Pure lui ama il calcio, ma non è juventino, è
milanista. Però non commenta la partita, che non è
ancora cominciata; dice che sta succedendo qualcosa,
qualcosa di brutto. Il bimbo guarda e non capisce, i
suoi occhi non sanno ancora distinguere bene il
"brutto", soprattutto quando si tratta di una partita di
pallone, cioè di qualcosa che per lui è il massimo della
bellezza, del divertimento. Eppure in quello stadio
belga qualcosa di brutto dev’essere successo davvero. Il
telecronista, Pizzul, non racconta la partita (che
dovrebbe essere già cominciata), ma parla di incidenti;
le immagini della Tv riprendono una curva piena di
bandiere bianco-nere. Ma non sventolano affatto; il
bimbo vede che i tifosi della Juve corrono, scappano,
sembrano delle formiche che fuggono davanti a un
gigante. Alcuni scappano verso il campo di gioco, ma ci
sono poliziotti a cavallo che li bloccano, li
manganellano; altri corrono verso altri tifosi, che però
hanno le bandiere rosse, sono quelli del Liverpool: e si
picchiano, tanto.
Il
bimbo non capisce, il papà dice: "che deficienti, che
animali, cosa fanno ? Chi li ha fatti incontrare ?". I
tifosi delle squadre avversarie non dovrebbero stare
lontani in una partita così ? Il bimbo ha letto sulla
Gazzetta che tra i tifosi inglesi ce ne sono alcuni
molto cattivi, tremendi, chiamati "hooligan"; non sa
cosa significa questa parola, però, ora che li vede in
azione, capisce che sono tifosi molto bravi a menare le
mani, a inseguire i tifosi avversari, a farli scappare.
Ma anche gli juventini si danno da fare, sembrano
cattivi anche loro. Poi il telecronista dice che la
partita non può iniziare: forse è rinviata, forse
sospesa perché ci sono tanti feriti, qualcuno anche
grave. Feriti gravi ? Allo stadio ? Il bimbo non ci
crede. A un certo punto squilla il telefono: sono i
nonni dalla Calabria che hanno visto le immagini e
chiedono se il bimbo è lì a casa o se magari è andato a
Bruxelles a vedere la partita. I nonni ! Che esagerati !
Il papà li tranquillizza. Mentre il bimbo sorride
sentendo la telefonata, vede in Tv i giocatori della
Juve in campo. Ma non sono lì per giocare: hanno la tuta
addosso e parlano con i tifosi. Il bimbo riconosce
Platini, Tacconi, Bonini, Scirea: tanti tifosi stanno
attorno a loro, li abbracciano, li salutano, ma c’è
anche qualcuno che piange, che quasi li prega… Ma non si
gioca allora ? Sono le otto e mezzo ormai. Nessuno dice
nulla in Tv. Poi, più tardi, il bimbo vede che ci sono
tifosi con le bandiere e le sciarpe della Juve che
sembrano accatastati l’uno sopra l’altro. Il papà, che è
tornato sul divano, è sconvolto, dice che sono
aggrappati a un palo di ferro, che saranno centinaia,
che presto il muretto che confina con quel palo
crollerà. Molti tifosi sono scappati verso quel muro per
sfuggire ai tifosi del Liverpool: ma ora sono tutti
ammassati, schiacciati. In Tv si vedono alcune facce:
c’è chi ha i baffi, chi gli occhiali, i visi sono
sconvolti. Si vede un uomo con una giacca blu sospeso
nel vuoto: ha le gambe in mezzo alla folla, il corpo sul
vuoto, ed è aggrappato disperatamente al palo di ferro…
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Poi
succede che tutti vengono giù, non si capisce bene, il
telecronista dice che deve essere crollato il muretto.
Si vedono tifosi cadere, altri tifosi correre sopra di
loro, scappare, calpestare i corpi, i maglioni, i
pantaloni degli altri e fuggire, liberi finalmente,
verso il campo, verso la pista d’atletica. Il bimbo si
stringe al papà, ha una strana paura. L’emozione per la
finale di Coppa dei Campioni è svanita. Ha visto quelle
facce, quelle persone schiacciate contro quel muro, poi
le ha viste cadere tutte insieme, a centinaia una sopra
l’altra. Forse si sono salvate, si sono tolte dalla
calca. Non si sa, perché il telecronista non dice nulla,
le immagini della Tv inquadrano diversi settori dello
stadio. Sono ormai quasi le nove. La Tv continua a dire
che ci sono feriti gravi, forse "molto" gravi. Intanto
il bimbo vede che ci sono poliziotti a cavallo davanti
alla curva degli juventini, quella che è crollata. E poi
vede tante ambulanze andare e venire, sembra una
"guerra", dice il papà. Poi la notizia attesa: la
partita si giocherà, l’UEFA, che organizza la finale,
dice che se non si gioca succede il finimondo. E il
bimbo ha di nuovo un sussulto d’emozione, perché ora la
Juve scende in campo e bisogna tifare, vincere quella
coppa. Però non è contento come altre volte, quando
vedeva le partite…
Alle
21.15 comincia la partita, con un’ora abbondante di
ritardo. Il bimbo vede i suoi eroi, recita a memoria la
formazione della sua squadra, di quella fortissima
Juventus piena di italiani campioni del mondo e di quel
poeta del pallone di nome Platini. Il bimbo non pensa ad
altro, se non alla partita. Il cuore batte forte. Ma il
telecronista non alza la voce quando c’è un’azione
pericolosa, né sembra raccontare una partita; il tono
della sua voce è monocorde, mesto. Spesso non parla
della partita, ma delle notizie che arrivano dallo
stadio, dagli ospedali di Bruxelles. Dice che fuori
dallo stadio sono state montate alcune tende dove sono
curati i feriti più gravi. Poi dice che sente
continuamente sirene di ambulanze. Poi dice che forse
c’è stato un morto tra i tifosi italiani; il bimbo non
ci crede, il papà è sconvolto, nemmeno lui ci crede. Ma
perché il papà è così sconvolto ? Non conosciamo nessuno
che è andato a Bruxelles. Il bimbo non capisce bene il
primo tempo scivola via, zero a zero. Ma il Liverpool è
forte, il bimbo freme, ha paura, perché la Juventus
soffre, ha rischiato di prendere più volte il gol, non
ha attaccato molto.
Ci
manca pure di perdere anche questa finale ! Inizia il
secondo tempo e la Juve sembra più intraprendente.
Finalmente i suoi campioni si sono svegliati e Platini
comincia a pennellare poesia con i piedi. La partita è
combattuta, coinvolgente, ma il telecronista non sembra
accorgersene: dice che forse c’è più di un morto, che le
autorità belghe non diffondono notizie attendibili, che
certe cose non possono succedere in uno stadio. Il bimbo
non ascolta più: vede un pallone lanciato da Platini,
vede Boniek che corre verso la porta del Liverpool, da
solo. Poi però cade: l’arbitro fischia il rigore, non si
capisce bene perché, Boniek era fuori area. Ma è rigore.
Platini segna, esulta, il bimbo è felice, corre per il
salotto di casa pieno di gioia. La partita riprende e
quelli del Liverpool sembrano indemoniati: attaccano con
forza, vogliono pareggiare, Tacconi para tutto, è il
migliore in campo. Alla fine la Juve vince, la Coppa dei
Campioni prende la strada di Torino. Il bimbo ha seguito
con il cuore in gola il secondo tempo e al fischio
finale può liberare la sua gioia. Non sta più nella
pelle. Il papà invece ha la faccia triste, ma non dice
nulla al bimbo, lo lascia sfogare. Forse, quando sarà
più grande, capirà, e lui gli spiegherà la tragedia che
si è consumata allo stadio Heysel di Bruxelles il 29
maggio 1985. Ma stasera il papà vuole fare sognare suo
figlio ancora un po’. Fra qualche tempo gli parlerà dei
39 morti di quella sera.
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Poesiaescrittura.blogspot.com
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Il "mio" Heysel
di Stefano Bellini
La
passione è un sentimento straordinario, ti dà sensazioni
fortissime ed intense. La passione mi ha regalato molti
momenti indimenticabili e tra questi avrei voluto
fortemente che fosse stato presente anche QUEL MOMENTO
LI’… Quello del 29 Maggio 1985. Quello del grande
evento, quello della rivincita, quello della "prima
volta", quello della Coppa dei Campioni (…Nome più
affascinante dell’attuale Champions League). E invece
no. Adesso, a distanza di quasi 24 anni, mi dà grande
imbarazzo ricordarmi che, quella sera, l’infinita
passione per la mia Juve prese il totale sopravvento
sulla ragione. Non capivo cosa stava succedendo, qualche
indiscrezione cominciava ad uscire fuori, ma in me
cresceva il fastidio (…Sì fastidio… A pensarci adesso mi
vergogno…) tipico della festa rovinata. Ho gioito, ho
esultato ma con il freno a mano tirato, perché dentro di
me avevo una strana sensazione, un senso di tormento. Il
giorno dopo la tremenda conferma. Assolutamente
stravolto, il primo pensiero fu "non è possibile che
tutto ciò sia capitato proprio alla mia Juve", non 2
anni dopo Atene. Non sono stato presente a Bruxelles
(...Ah il destino !) ma, grazie ad un episodio casuale
accaduto il 29 Maggio 2008, ho avuto la possibilità di
sentirmi anch’io partecipe di quella maledetta sera.
Collaborando alla preparazione di una puntata speciale
televisiva sull’Heysel nel 2008, ho avuto la fortuna di
contattare e conoscere il signor Otello Lorentini, padre
di Roberto, uno dei 39 Angeli, presidente
dell’Associazione dei familiari delle vittime. Appena mi
presento e gli spiego il motivo della mia telefonata
percepisco subito in lui un sentimento di naturale
diffidenza che capirò più tardi. Molto gentile e
schietto mi dice che, di questa tragedia, lui ne ha
parlato abbastanza e che è tutto scritto in un libro,
L’UNICO CHE DICE TUTTA LA VERITA’. (N.D.R. Le verità
dell’Heysel. Cronaca di una strage annunciata di
Francesco Caremani) Continua dicendomi che in molte
trasmissioni televisive si sono dette tante fesserie,
pensando più alla forma che alla sostanza delle cose. Lo
convinco ugualmente ad intervenire telefonicamente
garantendogli che potrà raccontare tranquillamente la
sua verità. Lorentini mi chiede solamente a che ora è
previsto il suo intervento perché, il giorno della
trasmissione, c’è la solenne Messa in ricordo dei
defunti. Un brivido intenso percorre la mia schiena.
Onore ai defunti. Termina la telefonata ed io penso:
dov’è la Juventus in tutto questo ? Lorentini non l’ha
mai nominata ed in più mi confessa che il nipote Andrea,
figlio di Roberto, è simpatizzante dell’Inter perché la
Juve proprio non riesce a tifarla. Credo fermamente che
il ricordo dell’Heysel debba vivere sempre in noi tifosi
bianconeri e NON e credo che, in primis, debba essere
proprio la nostra amata Juventus a ricordarcelo sempre.
FORZA JUVE, vinci anche fuori dal campo !
Fonte:
Saladellamemoriaheysel.it
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Il mio viaggio
all'Heysel per non dimenticarli
di Lorenzo Benocci
Ci
sono quei pochi scalini da salire, una volta arrivati
alla penultima fermata della linea 6, quella di colore
azzurro. E poi, giunti in cima, lo sguardo va, in modo
naturale, dove deve andare. Con un groppo in gola. Con
gli occhi che diventano lucidi. Sono all’uscita della
metropolitana di Bruxelles, fermata Heysel. A sinistra
c’è lo stadio oggi intitolato a Re Baldovino. Sono
passati 28 anni e poco più di un mese da quel 29 maggio
del 1985. Quella sera la mia Juventus giocava un’altra
finale di Coppa dei Campioni dopo soli due anni da
quella sfortunata di Atene, dove il più debole e
sottovalutato Amburgo ci beffò con il diabolico Magath.
Ma ora abbiamo la possibilità di rifarci contro quel
Liverpool che l’anno prima aveva trafitto ai rigori la
Roma, direttamente a domicilio. Ricordo perfettamente
quella serata. Con l’ansia di un bambino torno a casa
con mio babbo, dopo essere stato come tutti i mercoledì
a scuola di musica. In auto parliamo della partita, e di
cos’altro potevamo parlare ? L’ansia pre-partita stava
crescendo. Ma dalla radio apprendiamo che qualcosa non è
andato come doveva andare e che anche lo svolgimento
della partita sarebbe stato in dubbio. Poco dopo, siamo
davanti alla tv, a vedere quelle immagini terribili, di
guerra più che di sport, senza capire fino in fondo cosa
stava accadendo. In quei momenti un altro bambino di
quasi undici anni, esattamente della mia età, si trovava
allo stadio proprio nel settore maledetto con suo padre.
Insomma, un sogno, per lui, poter vedere la Juve che
gioca una finale. Ma quel bambino la partita non l’ha
mai vista, ed a casa non c’è più tornato. Così come suo
babbo ed altri 37 spettatori, di cui 32 tifosi della
Juve. I 39 angeli dell’Heysel. Sono passati 28 anni, ma
sembra un giorno. Una tragedia che nessuno potrà
dimenticare, troppo intensa, troppo assurda, anche
perché sarebbe potuta accadere a chiunque. Inutile
ricordare i fatti e le responsabilità, le sappiamo. In
cuor mio da sempre mi sarebbe piaciuto fare una visita
allo stadio maledetto; senza un motivo apparente, solo
per toccare quei muri dove si è compiuta una delle più
crudeli brutalità della storia recente, non solo dello
sport. Solo per riflettere. 39 persone che sono morte
mentre aspettavano l’inizio di una partita di calcio.
Assurdo. Finalmente sono potuto andare a Bruxelles (per
altri motivi), e così il mio viaggio all’Heysel si è
compiuto. Chiedo ad un giovane operaio che stava
lavorando all’ingresso dello stadio dove fossero la
lapide alla memoria e la meridiana che proprio nei
giorni scorsi la municipalità di Bruxelles ha deciso di
salvare dall’abbattimento dello stadio (e la costruzione
di un nuovo impianto nello stesso punto), grazie ad una
petizione organizzata da alcuni fantastici tifosi della
Juve. L’operaio mi risponde che non lo sapeva. Anche
altri due ragazzi che facevano jogging nel perimetro
esterno dello stadio non avevano mai saputo che ci fosse
la lapide. Mi rendo conto che il Belgio ha voluto
dimenticare in fretta questa pagina di vergogna, il nome
dello stadio - oggi Re Baldovino - me lo conferma.
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Arrivo
finalmente nel lato dell’ingresso principale e sullo
sfondo noto la meridiana. Qualche passante mi guarda
stranito, pensa a che cosa ci possa fare con il mazzo di
fiori gialli che tengo in mano. Mi dirigo dritto verso
la meridiana, ci sono le 39 luci - ovviamente di giorno
sono spente - ma nemmeno una targhetta a spiegare che
cosa significhi questo anonimo monumento. Qualche metro
davanti nel muro dello stadio la famosa lapide, con i
nomi dei 39 angeli caduti quel 29 maggio, inaugurata nel
ventennale della tragedia dal borgomastro della capitale
belga. C’è anche il nome di quel bambino, Andrea Casula,
a cui tante volte ho pensato in questi anni. E ci sono
tutti gli altri. Mi metto a riflettere, a ripensare alle
immagini di quel giorno viste tante volte, ai giornali
che ho conservato ed ogni tanto rispolverato. Mi chiedo
perché è potuta succedere una cosa del genere. Perché le
forze dell’ordine, l’organizzazione della finale e
chiunque potesse evitare questa tragedia non ha fatto
niente per evitarla. Mi chiedo se fosse stato utile e
giusto giocare quella partita. E se i giocatori
bianconeri avessero dovuto alzare quella Coppa al cielo.
Mi chiedo perché la Juventus, intesa come società, non
ha fatto abbastanza per ricordare i fratelli bianconeri
morti all’Heysel. Mi chiedo perché persone "normali",
per bene e all’apparenza pacifiche, quando vanno allo
stadio e quando parlano di Juve debbano avere questo
odio inspiegabile che va oltre lo sport fino a profanare
persino la memoria di vittime innocenti. E perché lo
sport non debba rimanere tale invece di valicare il
confine dell’inciviltà e dell’odio, come nemmeno nelle
guerre fatte per motivi più importanti ciò accade ?
Indossare una maglia del Liverpool con la scritta "meno"
e il numero "39" è una vergogna bella e buona; così come
i cori che dopo 28 anni risuonano ancora in alcuni
(molti purtroppo) stadi italiani. Ci vuole rispetto
qualunque sia il colore calcistico di ognuno. Riesco poi
ad entrare dentro lo stadio, e mi orizzonto fino ad
arrivare a quello che fu il settore Z. L’emozione è
ancora maggiore. Mentre appoggio il mio mazzo di fiori
in quella gradinata mi siedo e penso ancora a quelle
immagini di sangue e di morte. Guardo il punto dove Zibì
Boniek subì il fallo da rigore, la porta dove Michel
Platini segnò il gol decisivo dal dischetto. La cabina -
anche se oggi trasformata dopo la ristrutturazione dello
stadio - dove Scirea lesse la comunicazione che la
partita si sarebbe giocata per motivi di sicurezza. Esco
e torno davanti alla lapide ed un giovane padre di
famiglia, mi passa vicino, gli chiedo se può farmi una
foto e parliamo del mio mazzo di fiori. Si ricorda - mi
dice - della tragedia dell’Heysel anche se le sue
informazioni sono molto incerte e frammentarie. Gli dico
che non ho parenti o amici fra quei 39 morti, ma che
sono qui "solo" per ricordare quei tanti fratelli
bianconeri, che erano ognuno di noi. Insieme ai fiori
anche il biglietto che ho portato a nome di tutti gli
amici dello Juventus Club Doc Valdorcia -Valdichiana
"Beppe Furino": In memoriam - 39 angeli sempre nei
nostri cuori". Depongo il mazzo di fiori, è l’ora di
ripartire. Dopo qualche passo mi giro indietro, un
gruppetto di cinque-sei persone si avvicina a leggere la
lapide e il biglietto nei fiori. Ciao Andrea, ciao
angeli dell’Heysel, nessuno di noi vi dimenticherà mai.
Un ultimo pensiero è per le loro famiglie, ma anche per
Andrea Agnelli e per la società: caro presidente, si può
fare di più per ricordare l’Heysel, basterebbe davvero
poco e con costi irrisori. Un monumento all’esterno
dello Stadium, una sezione nel sito ufficiale, o
qualunque altra cosa. La Juventus è tornata a vincere, è
un modello sportivo e manageriale, lo deve essere anche
di umanità. Non dimentichiamoli, mai.
Fonte:
Agenziaimpress.it
© 11 luglio 2013
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Lorenzo Benocci
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Febbre a 90° e We are
the Champions: le ragioni di una passione
di Marco Biancalani
Ricordo
ancora tutto di quella sera. Avevo nove anni, un amico
con cui giocai a Subbuteo per l’intero pomeriggio
emulando la finale, le prime immagini confuse dalla tv,
il telefono che iniziò a squillare. Amici, parenti,
vicini, persino la mia maestra delle elementari: "Tuo
babbo è lì ?". Perché tutti sapevano che in quelle
occasioni spesso lui c’era, ma in realtà quella sera
aveva solo lo sguardo spento e gli occhi pietrificati
davanti a quelle immagini. Ebbe solo la forza di
mettermi a letto. "E la partita ?" gli chiesi,
innocente. "Non c’è nessuna partita" mi disse,
rimboccandomi le coperte, mentre mia mamma continuava a
singhiozzare nell’altra stanza. 29 maggio 1985,
Bruxelles, l’Heysel. Il mio Heysel, quello di un bambino
che aspettava di vincere una Champions League (allora si
chiamava ancora Coppa dei Campioni) e che invece toccò
con mano per la prima volta la tragedia, il dolore, la
morte per un tifo, un’appartenenza, uno schieramento.
Nick Hornby nel suo libro cult "Febbre a 90°" dedica
all’Heysel un capitolo toccante, in cui oltre alla
naturale compassione umana cerca di analizzare quanto
avvenuto: i 39 morti avvennero per schiacciamento, non
in seguito a ferite di altro tipo. Era una pratica molto
rischiosa per provocare schermaglie, molto inglese, che
portò anni dopo ad una tragedia ancora più grande come
dimensioni di vittime, quella dello stadio Hillsborough
di Sheffield nel 1989, anche questa raccontata nel
libro. Ci furono 95 morti, più del doppio rispetto
all’Heysel. Come racconta Federico Buffa in una delle
sue mirabili storie, fu lì che la Thatcher ne ebbe
abbastanza: il calcio inglese che vediamo oggi, con
stadi ed erbe perfette, nasce dal giro di vite deciso
quella sera. A Bruxelles i tifosi inglesi spingevano,
quelli italiani si schiacciavano e morivano contro un
muro. La colpa ? Certo, degli Hooligans. Ma molto anche
della (dis)organizzazione belga, che decise di adibire
una curva a entrambe le tifoserie, incoscienti
evidentemente anche solo della fama che avevano i tifosi
d’Oltremanica al tempo. Un padre con un figlio di 10
anni furono ritrovati insieme, morti abbracciati. Potevo
essere io, con mio padre, l’uomo che la domenica non
c’era mai perché spesso affrontava lunghi viaggi da
Prato a Torino. Io rimanevo dai nonni, mi rifugiavo nei
vinili di Aretha Franklin e dei Led Zeppelin mentre
tenevo lo sguardo rivolto a "Domenica In", sperando che
passassero buoni risultati in sovraimpressione. Poi
iniziò a portare allo stadio anche me e da lì è iniziata
la passione, quella che Nick Hornby descrive in "Febbre
a 90°" partendo dall’idea che "tutti abbiamo una buona
ragione per amare ciò che amiamo".
Il
mio amore per i dischi nasce dall’assenza, la passione
per il calcio dalla presenza, dalla prima vera cosa in
comune con un genitore troppo grande, troppo impegnato.
Da allora abbiamo gioito (molto) ci siamo guardati
delusi (meno) commentando i risultati, come Nick Hornby
forse avrebbe forse voluto fare con suo padre ma non è
mai riuscito. A lui la passione è trasmessa per caso da
un genitore che se ne era andato di casa anni prima e
che lo porta allo stadio così, per passare un sabato con
il figlio che non vede mai, esattamente come andare allo
zoo o al cinema. Una squadra vale l’altra, ma Nick
diventa tifoso dell’Arsenal e quando il padre si stufa e
vuole fare qualcosa di diverso, il ragazzino spiega in
maniera chiara (ancora meglio nella divertente
trasposizione cinematografica del libro, con
protagonista Colin Firth, donne fatevi avanti) come lui
non supererà mai quella fase. C’è già troppo dentro, o
meglio, come si direbbe di questi tempi, è stato
contagiato. Neanch’io in fondo l’ho mai superata, perché
questo è davvero un virus da cui non si guarisce. Come
dice lo scrittore inglese, "antropologi e sociologi
hanno avuto il loro bel da fare col calcio". Ancora mi
trovo a 44 anni a vivere questi giorni di fine maggio
con tristezza, non solo per l’Heysel, ma anche per tutte
le finali di Champions perse dalla mia squadra del
cuore: forse avrei dovuto capirlo già quella sera del
1985 che non sarebbe stato facile vincere quella coppa
maledetta, neanche in futuro. Ricordo però anche tante
(forse troppe) vittorie, alcune insperate come il 5
maggio. Al successo di un campionato inatteso per la sua
squadra, Nick Hornby dedica un capitolo memorabile,
forse quello focale dell’intero racconto. "Il più grande
momento in assoluto", lo intitola, rimarcando come
l’emozione di questa gioia inaspettata non abbia pari
con nient’altro nella vita. Il motivo ? Tutte le altre
situazioni che possono rendere un uomo felice
presuppongono un’azione in prima persona, dalla nascita
di un figlio al successo sentimentale o lavorativo. In
questa no, non si può contribuire con nulla, se non con
il proprio tifo. Non sono così assolutista, ma neanche
ipocrita al punto di negare che l‘esito di una partita o
di una stagione possa influire pesantemente (e
momentaneamente, ovvio) sul mio umore. Il calcio è
passione, gioia inaspettata, ansia costante ma anche
dispiaceri lancinanti.
La
musica è puro godimento, anche perché quella che non ti
piace semplicemente la escludi, non la ascolti. Le
canzoni dei Queen che amo per me sono gioia, tutte
tranne "We are the champions". Quella… Dipende.
Contenuta in un album bellissimo e dal suono grezzo come
"News of the World" (era il 1977, altro che glam rock,
bisognava fare concorrenza al punk) fu scritta da
Freddie Mercury non solo per autocelebrazione, ma
pensando al moto popolare del calcio. Questo brano e "We
will rock you", pezzo di apertura dell’album, chiudevano
i concerti dei Queen e facevano da colonne sonore a
tanti eventi sportivi, calcistici in primis. Se alla
fine della partita decisiva per l’assegnazione del
campionato o di una finale (a maggio) avevi voglia di
ascoltarla mentre i tuoi beniamini facevano il giro di
campo, allora ti era andata bene, esisteva solo quella
canzone, la rimettevi altre mille volte in cassetta nei
giorni seguenti. Altrimenti in "News of the World"
saltavi direttamente al terzo brano, "Sheer Heart
Attack", un bel pezzone rock dalla chitarra martellante
che non ti avrebbe costretto a pensare. Oggi il calcio è
ancora tifo, ma soprattutto un’industria, la terza del
paese per indotto. Attenzione prima di dire che con
tutti i problemi che ci sono in Italia, chi se ne frega
del calcio. Lo stadio della mia squadra, anche nei
giorni non di partita, dà lavoro a quasi mille ragazzi
fra steward, inservienti e addetti vari. Diventa un
centro per eventi e congressi, altro che i gradini del
vecchio Comunale di Torino degli anni ’80 in cui mi
sedevo con mio babbo mangiando panini con la frittata. È
un calcio diverso da quello che racconta Nick Hornby in
"Febbre a 90°", forse più sicuro ma certamente meno
genuino, meno passionale. A giugno riparte il
campionato. Forse questa è la cosa meno importante fra
le tante che sono successe in questi mesi, ma forse la
più importante per lanciarci il segnale che potremmo
esserne fuori. No, non mi è mancato il calcio, non ho
particolare voglia che riprenda, ma so che continuerò a
tifare appena ripartirà. E quando a luglio o agosto sarà
finita un’altra stagione, deciderò se fare di "We are
the champions" la colonna sonora di quel che resta della
mia estate, oppure dimenticarla per un po’. Di certo,
nell’estate del 1985, nessuno ha avuto voglia di
cantarla davvero. Tranne Freddie durante il Live Aid.
Fonte:
Scattidallamialibreria.it
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La mia opinione
sull’Heysel
di Bruno Bili
A
distanza di trent’anni la tragedia dell’Heysel e le sue
39 vittime, per fortuna non è finita nel dimenticatoio e
da allora tante cose sono cambiate in meglio nella
gestione delle finali delle coppe di calcio europee,
nella speranza che fatti del genere non accadano più.
Grande merito della memoria rinnovata va a chi da
sempre, parenti delle vittime in primis, ha lottato
perché su quell’episodio non calasse il silenzio che in
tanti, dalle autorità federali calcistiche europee a
quelle governative belghe avrebbero invece auspicato. Ci
sono un paio di aspetti sui quali vorrei provare a
spostare l’attenzione, perché vedo che nessuno lo fa
mai. Si dice: La Juventus non avrebbe dovuto ritirare la
coppa "insanguinata". Secondo me è sbagliatissima questa
considerazione. Vero che nessuna vittoria sportiva vale
anche una sola vita umana, ma è anche vero che i 39
morti, se la Juventus non avesse accettato di ricevere
la coppa, sarebbero veramente morti invano. Quella non è
la Coppa della Juventus è la Coppa dei 39, i loro nomi
vanno ricordati per sempre, al pari delle formazioni
delle due squadre in campo. Loro erano andati fin lassù
per vedere la Juve sollevare la prima Coppa dei Campioni
della sua storia, non sollevarla sarebbe stato veramente
togliere loro l’unica, anche se flebile e terrena,
ragione di un così tragico epilogo della propria vita.
Perché, secondo l’opinione comune, ci sono dei motivi
validi per dare la propria vita, fino a morire veramente
e altri motivi invece non lo devono essere ? Chi
stabilisce la serietà o la futilità di una motivazione ?
Oggi non si vive più come 2000, o come 1000, o come 500
anni fa, i valori, i modelli, i riferimenti sono
notevolmente cambiati e cambieranno ancora nel futuro.
Noi parliamo di loro, che sono morti, da sopravvissuti:
da padri-madri-figli-coniuge che hanno perso un loro
caro per una motivazione non così alta, come ad esempio
un parente di un militare che torna in una bara da una
missione di pace all’estero. Anche se non facevano nulla
di eroico, li consideriamo degli eroi, e accettiamo pur
nello strazio la loro morte come un sacrificio
necessario per la crescita dell’umanità. In realtà chi è
morto è morto uguale, non
mangia-ride-canta-pensa-soffre-gioisce-ecc. più allo
stesso modo. Il come muori non ti cambia la morte,
sempre morto sei. Al massimo, tragica battuta, ti cambia
la vita.
 Qui l’altra considerazione, che meriterebbe che
un autore scrivesse un monologo sul tema, da affidare
magari a un attore bravo come Marco Paolini. "Io, morto
all’Heysel. Perché nessuno prova a chiedermi la mia di
opinione sulla mia morte ? Vero, è una cosa impossibile,
ma come voi giornalisti o scrittori di chiara fama fate
le interviste ai grandi della storia, morti anche più di
duemila anni fa, perché non lo si fa con me ? Perché
nessuno ci prova neppure ? Forse perché io potrei dare
risposte scomode, forse perché potrei dirvi che anche
nel mio nuovo stato di "trapassato" ho gioito della
vittoria della mia squadra, che sono contento che i
giocatori abbiano fatto il giro dello stadio con la
Coppa al cielo, perché io ero andato fin lì per quello,
che sarei veramente morto per nulla se a un certo punto
alle 21 della sera di quel 29 maggio 1985 tutto si fosse
fermato e lo stadio fosse stato fatto defluire e il mio
corpo fosse tornato a casa come quello di un normale
turista investito da un’auto pirata in terra straniera.
Così mi sarei anche sentito in colpa: no… Per colpa
della mia morte non hanno giocato, per colpa della mia
morte non hanno vinto la coppa… No… Non avrei potuto
fare altro che urlare e tifare per contribuire alla
vittoria della mia squadra, ma così, con la mia morte
avrei contribuito a non farla vincere, non potrei
sopportarlo senza poter far nulla per rimediare, da qui,
dall’aldilà. Io sono tornato in una bara dalla "campagna
di Bruxelles" della Juve, un’altra cosa certo dalla
"campagna di Russia", da dove purtroppo in milioni non
sono neppure tornati da morti. Questa è la mia opinione,
non so se gli altri 38 la pensano proprio come me. I
miei cari mi mancano e sono sicuro di mancare anche io a
loro, come è per tutti qui, ma il fato ha voluto questo
per noi. Certo, se ciascuno di noi potesse scegliere il
proprio destino fino in fondo non ci sarebbero disgrazie
e malattie, vivremmo tutti 120 anni
alti-biondi-belli-ricchi. Ma a nessuno è dato di
scegliere, men che meno a noi, che, sapendolo prima che
quella era la nostra ultima serata di vita, magari
avremmo chiesto almeno di andarcene dopo la partita, non
prima, il biglietto l’avevamo pure già pagato e non ce
l’hanno mica rimborsato... Insomma, se qualcuno prima di
quella sera mi avesse chiesto: "ma tu daresti la vita
perché la Juve possa vincere la sua prima Coppa dei
Campioni ?" - non so cosa avrei risposto, e non so cosa
avrebbero risposto gli altri 38 amici qui vicino a me.
Adesso so che è successo proprio così, io ho dato la mia
vita, appoggiato a quel muro, e la Juve ha in bacheca la
sua Coppa dei Campioni. Non dimenticate il mio nome, i
nostri nomi, non abbiamo fatto nessun gol, ma abbiamo
scritto un pezzo di storia di quella sera, nostro
malgrado. Non dimenticateci".
Fonte:
Saladellamemoriaheysel.it
© 15 maggio 2015
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Siate la storia di
questa società
di Dino Boffardi
 Un
saluto sincero e un abbraccio a voi. Io sono un ormai
trentanovenne non vedente juventino da sempre. Leggo e
piango. Come ho pianto appena acquistata l’età della
ragione e come ho pianto tutte le volte che sento
parlarne. Io all'epoca avevo undici anni. Ricordo che
Papà mise sul canale Rai e pensò addirittura si
trattasse di una corsa ippica trasmessa al posto della
partita. Nella sua ignoranza non immaginava neppure
lontanamente credo, che quei cavalli che vide fossero della gendarmeria belga dopo una tragedia simile. Poi
capì. Poi capii. Capì mia mamma e i miei zii. Ricordo
che il giorno dopo a scuola si fece un tema riguardante
i fatti della sera precedente. Tornando a me, al
sentimento e al disgusto che quella sera tragica mi ha
lasciato vi dirò che non dimenticherò mai di onorare
ogni 29 maggio della mia vita con un pensiero a quei
trentanove angeli che per una partita non son più
tornati a casa. Abbraccio di vero cuore chi ha scritto
di incidere i trentanove nomi su quella coppa e concordo
sul fatto che solo così avrebbe un valore significativo.
Io a Bruxelles non son mai potuto andarci di persona ma
il mio cuore ogni 29 maggio è lì. E mi riprometto il
prossimo anno di andarci finalmente. Un pensiero fra
tutti quelli che ho va ad Andrea Casula, morto insieme a
suo papà nella ressa di quella maledetta sera.
Cucciolo... Io avevo la tua età allora. Immagino solo
con che gioia andasti a vedere la tua Juve. Immagino
l'allegria che sicuramente contagiava in modo maggiore
chi ti gioiva intorno, sia in viaggio sia allo stadio.
Io piccolo mio ogni volta che la Signora vince dedico a
te, sia pure in forma indiretta, la vittoria. Ogni
vittoria. A te, così come agli altri angeli che con te
resteranno sempre nel mio e nel nostro cuore. Io le
immagini non le vedrò e non le vidi mai. Ma bastò solo
sentire chi riuscì a tornare e raccontare, le persone
intervistate, e quella telecronaca asettica per darmi un
colpo al cuore che lasciò una cicatrice profonda, sia
nel cuore, appunto, che nel mio animo. Che la Juve tutta
faccia qualche cosa di più per non dimenticarvi mai e
perché voi come noi siate la storia di questa società.
Fonte:
Saladellamemoriaheysel.it
© 8 giugno 2013
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Guerin Sportivo © GETTY IMAGES
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