LA STRAGE ALLO STADIO
"Hanno sparato e usato
i coltelli"
Dai nostri inviati a Bruxelles
e Liverpool Angelo Falvo - Gianni Gelmi - Lello Gurrado
- Marco Sorteni
Gli inviati della Domenica
del Corriere hanno raccolto una inedita testimonianza che
può dare una svolta decisiva all'inchiesta sul massacro
di Bruxelles. I 32 italiani non sono morti soltanto per
la carica selvaggia dei tifosi inglesi.
Quegli occhi pieni di sangue
Il dottor Francesco Caruso,
un medico siciliano che lavora in Belgio, racconta: "Dopo
la partita ho prestato i primi soccorsi ai tifosi della
Juventus. In parecchi di loro ho riscontrato inequivocabili
ferite di arma da taglio e uno aveva addirittura il fegato
trapassato da una lama. Un altro tifoso mi ha rivelato di
aver visto un inglese sparare con una lanciarazzi a 20 centimetri
dalla testa di un italiano: è stato questo il segnale della
carica assassina".
Bruxelles, giugno. "Ho visto un tifoso inglese sparare,
con una lanciarazzi, a venti centimetri dalla testa di un
italiano e quello sparo è stato come il segnale di partenza
per l'assalto dei teppisti". "Questo mi ha raccontato un
ferito, subito dopo essere stato medicato. Era terrorizzato
ma lucido, ricordava tutto benissimo". Questa è la testimonianza,
grave e meditata, del dottor Francesco Caruso, un medico
siciliano che sta specializzandosi in Belgio nell'ospedale
universitario. La sua denuncia, fatta alla Domenica del
Corriere poche ore dopo i tragici incidenti, è ancora più
decisiva per due motivi: 1) perché prova che nella curva
maledetta non ci furono soltanto spinte; 2) perché conferma
quanto è stato denunciato da un coraggioso giornalista inglese
del Daily Mail, Paul Fry, il quale si è presentato spontaneamente
alla polizia di Bruxelles per riferire di avere appunto
visto un tifoso del Liverpool sparare in direzione degli
italiani. Ma non è tutto. Nello stadio Heysel non si è soltanto
sparato. Il dottor Caruso ci ha anche raccontato che alcuni
dei feriti più gravi non erano stati schiacciati, ma erano
stati accoltellati. "Rantolava quando l'ambulanza
l'ha scaricato al pronto soccorso dell'ospedale. È stato
portato nel nostro reparto e l'ho subito visitato. Aveva
un largo squarcio nella parte destra del corpo: il fegato
era stato trapassato dalla lama di un coltello. Non ci sono
dubbi, la ferita era stata causata da un'arma da taglio.
Purtroppo, non so se il tifoso italiano è riuscito a salvarsi
oppure se è una delle 38 vittime. La confusione era tale
che i feriti passavano da un ospedale all'altro"... Il dottor
Francesco Caruso non era allo stadio. Avrebbe voluto vedere
la partita e aveva fatto anche alcune ore di fila ai botteghini
per comprare un biglietto, ma non l'aveva trovato. Così
era andato a vedere la partita in Tv nella casa di un collega
belga. Ma appena scoppiata la tragedia, si era precipitato
in ospedale per soccorrere i connazionali. E per due giorni
e due notti si è prodigato senza tregua, facendo anche l'interprete.
Dice ancora il dottor Caruso: "La maggior parte dei feriti
presenta sintomi di schiacciamento. Erano quelli più vicini
al muro e più lontani dagli inglesi, quelli che avevano
subito l'insostenibile pressione della folla. E poi c'erano
tifosi che presentavano ferite lacero contuse, provocate
da armi da taglio e da cocci di bottiglia. In molti di loro
abbiamo trovato schegge di vetro. Il giovane dottore siciliano
(33 anni, di Catania) ha poi rivelato un altro particolare
agghiacciante. Parecchi ricoverati avevano gli occhi di
un mostruoso colore purpureo, dentro occhiaie livide. "Questo
sintomo ci ha spiegato il medico è la prova che sono stati
selvaggiamente picchiati sulla testa. I colpi violenti sul
cranio hanno rotto i capillari e il sangue è colato dentro
gli occhi".
"E noi per difenderci avevamo
soltanto sacchetti di mele"
Sconsolata ammissione di
un tifoso scampato all'inferno dell'Heysel: "Loro ci attaccavano
con bastoni, sassi e bottiglie rotte e alcuni di noi hanno
risposto con le uniche cose che avevano: la frutta che si
erano portati da casa".
Bruxelles, giugno. Una
settimana dopo, il vecchio stadio Heysel mostra ancora i
segni del barbaro passaggio dei tifosi inglesi. Reti divelte,
muri sbriciolati, bandiere lacerate, brandelli di abiti,
scarpe spaiate, magliette insanguinate, sacchetti di plastica
nei quali marcisce la frutta mai consumata, cocci di bottiglia,
parole incrociate, sigarette, lattine, un cinturino di orologio,
un paio di occhiali rotto a metà, due libri gialli, trombette,
lembi di striscioni. È il campo di battaglia dove la sera
di mercoledì 29 maggio il calcio è degradato a una bestiale
corrida: uomini che caricavano altri uomini per ucciderli.
Sono morti in 38: non erano ultrà del tifo, pronti alla
rissa, ma spettatori sereni e pacifici venuti dall'Italia
per veder vincere la Juventus. Fra loro, un bambino di 11
anni e una nonna di 58. Sono morti schiacciati dalla furia
di tifosi ubriachi e violenti, che erano arrivati a Bruxelles
per incoraggiare il Liverpool, ma soprattutto per dare sfogo
alla loro bestiale aggressività. È passata una settimana
e il governo inglese della signora Thatcher sta facendo
di tutto perché l'Italia, così dolorosamente ferita, possa
perdonare la follia di quella notte. Le squadre inglesi
sono state escluse a tempo indeterminato dalle coppe europee
e i tifosi, messi in quarantena, non potranno più uscire
dall'isola a seminare il terrore. Ma non basta. Il gioco
più bello del mondo, se non vuole autodistruggersi, deve
sconfiggere ogni tipo di violenza, fisica, verbale, psicologica,
economica. Perché la tragedia di Bruxelles non è stata un'esplosione
improvvisa e isolata di follia, ma è l'anello finale di
una lunga catena di violenza che si abbatte sugli stadi
di tutto il mondo. La violenza s'è scatenata nell'America
del Sud, dove, per anni, il calcio ha rappresentato l'unico
riscatto sociale, ma anche nella Cina modernizzata di Deng,
dove giocatori e pubblico hanno acceso una rissa colossale,
durante la sfida con la nazionale di Hong Kong.
Le gravi colpe degli organizzatori
Sono segni certi che la
tossina della brutalità e dell'aggressività senza freni
minaccia il calcio in ogni parte del mondo, fra le culture
e gli ordinamenti politici più diversi. Gli organizzatori
belgi sono colpevoli soprattutto per non aver capito questo.
"Fra noi e gli animali di Liverpool c'era soltanto la fragile
barriera di una rete, di quelle che si usano in giardino
e basta un soffio per farle crollare, e c'erano soltanto
cinque poliziotti" ha detto uno dei superstiti. I tifosi,
invece, in base a un'elementare e ovvia regola di sicurezza,
devono essere rigorosamente separati. È vero, gli italiani
erano nei settori M, N e O e gli inglesi nei settori X e
Y. nelle due curve opposte; ma è stato criminoso lasciare
a disposizione degli ultimi tifosi italiani un settore confinante
con quelli inglesi. Il settore Z, il settore della morte.
Un'ora prima dell'inizio della partita, gli uligani (così
si autodefiniscono i teppisti di Liverpool, con un nome
preso a prestito da quelli russi), già ubriachi di birra,
aggredivano chiunque non avesse lo stendardo rosso della
loro squadra, prima con insulti, poi con i bengala, poi
con le pietre. La polizia, che pure aveva piazzato un robusto
e inutile cordone nella curva occupata interamente dagli
juventini, era incapace di intervenire per soffocare gli
incidenti. Il primo a sanguinare, colpito alla testa da
un blocco di cemento strappato dalle gradinate, era un ragazzo.
Con un fazzoletto premuto sulla ferita, ha attraversato
la pista per andare in infermeria e la sua faccia insanguinata,
invece di placare gli animi e di allarmare i poliziotti,
ha eccitato i teppisti ubriachi e ha lasciato indifferenti
le forze dell'ordine. E’ cominciato qua l’inferno ? Gli
inglesi alla ricerca di un'impossibile giustificazione,
parlano di un tifoso italiano che ha sparato verso di loro
con una pistola scacciacani. Storie, è stato accertato che
il colpo, per altro assolutamente innocuo, è stato sparato
un'ora dopo, quando 32 massacrati erano già cadaveri e allineati
sul marciapiede fuori della curva.
E’ stato opportuno disputare
la partita
L’assalto inglese è stato
volontario, senza che niente e nessuno l'avesse provocato.
D'improvviso, dieci, cento uligani hanno travolto la rete
di divisione e, brandendo mazze di ferro, aste di bandiera,
persino coltelli e cocci di bottiglie, hanno attaccato gli
italiani costringendoli a indietreggiare. In un attimo la
pacifica curva Z si è trasformata in una trappola. Spinti
dall'urto selvaggio, gli italiani sono stati schiacciati
contro il muro di cinta. Urla, pianti, implorazioni a nulla
sorso serviti. Qualcuno, per respingere l'orda britannica,
ha cercato di reagire, ma aveva con sé soltanto delle mele
e quelle sono state le uniche armi adoperate dai nostri
per difendersi. Poi, il muro è crollato. Più di trecento
italiani sono stati travolti da una slavina di corpi. Quello
che è successo dopo, l'hanno visto tutti in televisione.
S'è vista anche la partita, vinta dalla Juventus per un
rigore inesistente. Sull'opportunità di far giocare o meno
la finale di Coppa dei Campioni si è discusso molto. Ne
hanno parlato il presidente del Consiglio Bettino Craxi
e il presidente della Camera Nilde Jotti, tutt'e due contrari.
Ma chi era a Bruxelles sa quanto è stata opportuna e giusta
la decisione di farla giocare. Se avessero annullato l'incontro
ci ha detto il medico italiano Francesco Caruso, che per
due giorni e due notti si è prodigato a curare i feriti
nell'ospedale in cui lavora, "I morti sarebbero allineati
a decine e decine sui marciapiedi di Bruxelles".
"Chissà come papà è contento
della vittoria"
Queste sono state le prime
parole pronunciate da Carla Gonnelli appena uscita dal coma.
Non sapeva però che il padre è una delle 38 vittime dello
stadio. Le testimonianze più drammatiche dei tifosi sopravvissuti.
Bruxelles, giugno. Erano
arrivati a Bruxelles in pullman, in treno, in aereo, in
macchina. Sono tornati su un Hercules 130 del ministero
della Difesa, vittime innocenti di un'esplosione di odio
stupido e incontrollabile. A Roma, a riceverli, c'era Sandro
Pertini; ma a Bruxelles, nello spoglio e freddo hangar dell'aeroporto
militare, soltanto Susanna Agnelli, sottosegretario agli
Esteri. rappresentava il governo nell'estremo saluto a quei
nostri poveri morti. Nessun rappresentante della Federazione
calcistica, né Federico Sordillo, il presidente che non
manca mai alle cerimonie trionfali, né Vincenzo (NdR:
Antonio) Matarrese, il super attivo presidente della Lega.
Non un gagliardetto della squadra per la quale hanno assurdamente
perduto la vita, non un giocatore presente, non un telegramma.
Allineati per terra, nelle bare coperte dalla bandiera tricolore,
i morti dell'Heysel hanno ricevuto soltanto l'omaggio di
Paola di Liegi e del marito Alberto e quello, meno opportuno,
del presidente del Consiglio belga, Wilfried Martens, che
ancora non ha sentito il dovere di dimissionare i responsabili
del mancato servizio di sicurezza. Se ne sono andati al
suono del Valzer delle candele, al termine di una cerimonia
breve e imbarazzata. A Bruxelles sono rimasti i feriti e
soltanto loro, tardivamente, hanno ricevuto la visita di
Michel Platini e Stefano Tacconi. I due giocatori juventini
sono stati spediti in Belgio dalla società. Dovevano essere
ambasciatori di una doverosa solidarietà, ma più che dei
drammi umani si sono preoccupati del fatto sportivo. Hanno
salutato frettolosamente i feriti e si sono invece preoccupati
di dimostrare che la loro vittoria in Coppa dei campioni
è pulita. Restino allora, Platini, Tacconi e gli altri,
nel loro mondo di gol sponsor e coppe. Noi parliamo con
i superstiti della tragedia.
CARLA GONNELLI è appena
riemersa dal coma. Ma la sua memoria, bloccata dallo shock,
ha cancellato tutto. Ricorda soltanto di essere arrivata
con il padre Giancarlo allo stadio e poi è il buio. Dice:
"Dovevo andare due anni fa alla finale di Atene, ma papà
non poteva e io avevo 16 anni, i miei non mi lasciarono
partire da sola. Ma quest'anno la partita di Bruxelles non
volevamo perderla e così dal nostro paese, Ponsacco siamo
andati a Pisa, che è vicinissima, e abbiamo preso l'aereo.
Poi, è successo quello che è successo, ma che io non ricordo,
e la partita non l'abbiamo vista. A proposito, chi l'ha
vinta ? Le diciamo che a vincere è stata la Juventus e Carta
sorride con quel suo volto pesto. Mormora: "Anche il papà
sarà contento. Lui è più juventino di me". Non sa che il
padre Giancarlo Gonnelli, 45 anni, è in una bara.
GIORGIO BIANCHI è di quelli
che a Bruxelles era venuto per la partita e per una gita.
E, infatti, era accompagnato dalla moglie Laura. Anche loro
hanno i biglietti, costo 300 franchi belga, poco più di
10 mila lire al cambio ufficiale, per il settore "Z". Sono
naturalmente insieme, ma quando si scatena l'inferno la
furia degli inglesi li separa. Giorgio Bianchi si ritrova
vivo all'esterno dello stadio, ma Laura dov'è ? Si sgola
a chiamarla ma nessuno risponde. Ormai sull'asfalto hanno
posato molti corpi. Giorgio Bianchi sa che la moglie indossava
una maglietta verde e comincia a guardare quei corpi ai
quali la violenza devastatrice ha spesso strappato gli abiti.
In lontananza, gli sembra di vedere qualcosa di verde. Chissà,
forse è la maglietta di Laura. Si avvicina, è proprio verde,
ma chi è la donna con il viso coperto di sangue e di polvere
? Potrebbe essere Laura. Si china ancora di più, delicatamente
toglie un po’ di sangue, un po' di polvere e, finalmente,
ha la certezza: quella donna è lei. Ma è in mezzo ai morti.
Gli infermieri, i gendarmi gli dicono: "Signore, si rassegni,
qui ci sono soltanto cadaveri". Ma lui non si rassegna,
non accetta quella morte assurda. Accosta l’orecchio al
cuore della moglie e sente come un palpito, un lieve battito.
Pensa: "Forse mi sono sbagliato, forse è la mia immaginazione
a farmi sentire il battito del cuore di Laura". Accosta
di nuovo l’orecchio risente quel palpito leggero. E' viva,
è viva. Ricorda adesso: "Afferro il primo infermiere che
passa da quelle parti e grido: mia moglie non è morta, bisogna
portarla all'ospedale, forse può essere salvata. Ma quello
non capisce. Ripeto la scena con un altro infermiere e il
risultato non cambia. Non mi credono, quella donna stesa
per terra per loro è morta. Finalmente, il decimo infermiere
al quale mi sono rivolto decide che, dopotutto, vale la
pena di accertare se quella donna è morta oppure no, e s'accorge
che non lo è. Fa accorrere un'ambulanza, appena in tempo.
Ancora pochi minuti e sarebbe stato tardi. Due giorni dopo
è uscita dal coma, viva". Laura adesso stringe la mano al
marito, è lui che l'ha salvata, che le ha ridato la vita.
ANGELO FILIPPONI, 37 anni,
ha la gamba in trazione, fracassata. Era Del settore "Z"
ed era finito sotto un pezzo del muro crollato. "La gente
in preda al panico mi passava addosso, mi pestava. lo gridavo,
gridavo ma, alla ricerca della salvezza, continuavano a
passarmi addosso, a pestarmi. Ho pensato: è la fine; morirò
schiacciato. In quel momento ho sentito una voce: "Angelo,
coraggio, ci sono qua io". Era la voce di mio cognato".
Dice Giuseppe Rossi, il cognato: "Eravamo partiti dal nostro
paese, in Abruzzo, con una comitiva di amici. C'era con
me anche un uomo anziano, Luigi Cicconi, di 64 anni. E per
la verità, quando è scoppiato il finimondo, mi sono preoccupato
di lui, di Cicconi. Temevo che sarebbe stato travolto da
quei pazzi di inglesi che spingevano, spingevano e sprangavano.
Ma Luigi era riuscito a raggiungere il muretto e io e un
altro paio di amici lo abbiamo fatto scivolare dall'altra
pane, salvo. Non vedevo, invece, Angelo, mio cognato. Una
forza irresistibile mi ha scaraventato in alto e allora
ho visto un uomo che si dibatteva sotto un masso. Era Angelo.
Ma quel pozzo di muro era pesantissimo, non ce la facevo
a sollevarlo e, per di più, la pressione aumentava. Fortunatamente,
è venuto in mio aiuto un amico, Edmondo Mastrilli; insieme,
abbiamo fatto leva e abbiamo sollevato il masso. L'Angelo
ululava per il dolore, ma era vivo, ed Edmondo l'ha messo
in salvo all'esterno dello stadio. lo sono restato ancora
dentro perché ho sentito una vocina disperata. Era un bambino:
implorava: "Salvami". Ho cercato di salvarlo, non ce l'ho
fatta". Quel bambino era Andrea Casula, undici anni, una
delle vittime.
GIANNI MASTROIACO era venuto
da Rieti. Si era imbarcato su un Pullman, prezzo della corsa
andata e ritorno a Bruxelles e del biglietto d'ingresso
allo stadio 160 mila lire. Racconta Pietro Di Filippo, 22
anni, presidente del club inventino: "Abbiamo viaggiato
per 24 ore e quando siamo arrivati a Bruxelles abbiamo dovuto
fare altre 5 ore di fila prima di entrare allo stadio. Ci
siamo piazzati in basso, appoggiati alla transenna. Eravamo
stanchi e felici, quando ecco che un centinaio di ragazzi
ubriachi, che avranno avuto al massimo vent’anni, si mettono
a tirarci addosso bottiglie di birra e petardi. E poi vengono
avanti e ci assaltano. Di poliziotti fra noi e loro non
ne ho visti più di tre. A uno di questi ho detto "Ma non
vede che ci stanno massacrando. Che cosa aspettate per intervenire,
che ci facciano tutti a pezzi ?". E lui mi ha risposto:
"J'ai peur", ho paura; ed è scappato via. E siamo rimasti
soli contro quei delinquenti. Il nostro gruppo, che, per
così dire, era in prima linea, è stato immediatamente travolto.
Qualcuno di noi è riuscito a cavarsela con poche botte,
qualcun altro è stato ferito. Gianni è morto. Aveva soltanto
20 anni e il suo viaggio a Bruxelles era una vacanza, prima
di mettersi a lavorare nell’azienda del padre".
PAOLA LUSCI, bruna, i capelli
scuri, lo sguardo dolce di tutte le donne incinte, si getta
quasi di peso sulla bara. Sposta la bandiera tricolore,
bacia la targhetta di ottone e ripete ossessivamente la
stessa frase: "Te lo terrò bene, vedrai... Te Io terrò bene...
Te lo terrò bene… L'immaginazione corre al bambino che nascerà
in agosto. Paola sembra una giovane vedova, e invece sta
parlando con la mamma, le sta dicendo, a lei che è morta
nella curva che avrà cura del papà, rimasto ferito. "Gli
stirerò i calzoni, farò il possibile. Certo non sarò mai
in gamba come te...". La mamma di Paola aveva 58 anni, la
più anziana tra le vittime. Il calcio non le piaceva: si
trovava a Bruxelles soltanto per far compagnia al marito.
"Lui ci teneva moltissimo a questa finale, ricorda la figlia,
erano mesi che ne parlava. Però voleva andarci con la mamma.
E per convincerla le aveva promesso che in caso di vittoria
della Juventus l'avrebbe portata a fare un secondo viaggio
di nozze. Lei aveva accettato e noi la prendevamo continuamente
in giro. Mamma, vai a Parigi, eh... Dolce la vita. Mamma,
che cosa farai a Parigi ? Invece è rimasta per sempre
a Bruxelles, la morte più stupida che si possa immaginare.
Meno male che è rimasto vivo mio padre, almeno lui. Ha sette
costole rotte, la faccia gonfia e irriconoscibile.
Ma fra un po’ tornerà a casa, io lo accudirò, gli stirerò
i calzoni, lo terrò bene… Lo terrò bene…".
SERGIO BIAGINI, 39 anni,
pesarese, ha occhi color porpora. Non soltanto occhiaie
e palpebre, ma tutto il bulbo. E' l'effetto di una botta
presa sulla testa che gli ha provocato un travaso sanguigno
e una commozione cerebrale. Gli hanno ordinato di non muoversi.
Deve stare sempre a letto a pancia in su, giorno e nette,
senza spostare la spina dorsale. Può muovere soltanto le
braccia, ma è meglio che lo faccia con cautela. "E' dura
da sopportare, ma non mi lamento", dice. "Tutto quello
che mi capita da questo momento in poi è un di più, è guadagnato.
Perché, quella sera, io ero convinto ormai di essere morto.
Ricordo che a un certo punto, dopo aver cercato di resistere
alla massa che mi schiacciava, sono caduto da circa tre
metri. Sono finito in terra con la schiena, ho cercato di
rialzarmi, ma una persona ma è passata con i piedi sul torace.
Dio, non ce la faccio, ho pensato. Ho provato a tirarmi
su e niente. Ho cercato gli amici che erano venuti alla
partita insieme con me e non c'erano. Poi, piano piano,
mi sono sentito sciogliere, come se qualcuno mi strappasse
via dalla terra. Sto morendo ho pensato. Sì, ricordo proprio
di aver pensato che stavo morendo, ho fatto in tempo a salutare
i miei, ciao Rosaria, ho detto rivolto a mia moglie che
stava in Italia, e poi ho chiuso gli occhi". Li ha riaperti
tre ore dopo, in ospedale. Un dolore pazzesco al torace,
la testa che scoppiava, ma ancora i sentimenti a posto.
"Chissà come ho fatto a salvarmi".
FABRIZIO MESSORE, 19 anni,
ha anche lui gli occhi porpora. Uno, il sinistro, si vede
e fa impressione; l'altro è nascosto da una benda e non
dev'esser certo un bello spettacolo. Seduto a gambe larghe
su un sedile del corridoio d'ospedale, le braccia penzoloni,
le gambe chiazzate del rosso della tintura di iodio, il
ragazzo è ancora sotto shock. Ha perso un fratello, Loris
di 27 anni. "Eravamo a trenta metri dagli inglesi. Il clima
era quello normale del pre-partita. Canti, urla, insulti,
ma niente di più. Poi d'improvviso il caos. Ci sono arrivati
addosso come delle belve. Volevano ammazzarci. Ma che gli
avevamo fatto ? Niente. Proprio niente. lo ero accanto a
mio fratello e a un nostro amico. Di colpo sono stato spinto
alle spalle e mi sono ritrovato per terra tre, quattro metri
più sotto. Sono svenuto, non ho più visto Loris. Mi hanno
detto che sono stato in coma per dodici ore. Adesso sto
bene, mi hanno detto di curarmi bene l'occhio. E mio fratello
è morto. Come non lo so".
EGIDIO FAVARETTO. "Siamo
partiti da Venezia in tre, io e i miei due figli. Un milione
e settecentomila lire in tutto. Sono tante, ma erano un
regalo per la cresima del grande, 14 anni, juventino sfegatato.
Il piccolo no, lui è milanista, ma ovviamente ha voluto
venire lo stesso. Abbiamo comprato tre biglietti di curva.
Siamo andati allo stadio in anticipo per prendere un bel
posto. Eravamo al centro, si vedeva bene, ma presto siamo
stati obbligati a spostarci. Gli inglesi avevano incominciato
a tirar sassi e abbiamo preferito andare verso l’uscita.
Così ci siamo messi vicino al muro che poi è caduto. La
mia idea era: se le cose si mettono male, prendo la porta
e ciao partita. Invece non ho fatto neanche in tempo a dirlo
ai ragazzi. D'un tratto siamo stati travolti. lo avrò avuto
addosso almeno quaranta persone, cercavo di allontanarle,
ma non c'era niente da fare. Ho pensato ai ragazzi. Ho preso
il più piccolo, Matteo di 11 anni, e ho cercato di fargli
scavalcare il muretto perché finisse fuori dallo stadio.
Ma gli si è incastrato un piede nella rete e non sarei mai
riuscito a salvarlo se non fosse intervenuto un altro spettatore
che l'ha liberato e buttato, letteralmente buttato di là.
L'altro non lo so. Non so come è riuscito a scappare. Perché
io sono svenuto e ho riaperto gli occhi dopo chissà quanto
tempo. Ero disteso sul marciapiede, portato lì chissà da
chi, e sentivo un dolore maledetto alle estremità. Mi ero
rotto tutti e due i piedi. Mi sono alzato lo stesso e ho
incominciato a cercare i miei figli. Li invocavo, gridavo
e intanto impazzivo dal dolore. Per primo ho visto il più
grande, Massimiliano. Mi ha detto: "Papà, tutto bene, Matteo
è solo ferito a un braccio"; e allora sono svenuto per la
seconda volta. Mi sono risvegliato in ospedale, dopo essere
stato operato a entrambe le gambe. La prima persona che
ho visto è stato mio figlio. Ha un braccio ingessato ma
sta bene anche lui. L'altro, il grande, è già tornato a
casa a fare compagnia alla mamma. A dirle che noi, con le
partite e con gli stadi, abbiamo chiuso.
1 giugno 1985
Fonte: La Domenica del
Corriere
ARTICOLI STAMPA BRUXELLES
1.06.1985
di Angelo Caroli
DALL'INVIATO. BRUXELLES
- Lo stadio della morte, 48 ore dopo. Vi si accede soltanto
attraverso una porta secondaria. Il custode ci accompagna
fino alla curva Nord, settore "Z", quello del massacro.
Lo spettacolo è desolante. La gradinata è completamente
ricoperta da oggetti impersonali, come pacchetti di sigarette,
giornali, lattine vuote, sacchetti di plastica sbattuti
qua e là dal vento. Due gendarmi presidiano quella curva,
fanno turni di 12 ore e non lasciano avvicinare chi non
sia munito di un permesso speciale. Quattro mazzi di fiori
di campo sono stati deposti sopra un blocco di cemento sradicato,
mercoledì notte, dalla pressione della folla. Uno è stato
portato lì dall'ambasciatore italiano Giovanni Saragat.
Più in basso, una rosa rossa. E' stata legata con un sottile
fil di ferro ad un colonnino rimasto tranciato a metà. "E’
l'omaggio di un gruppo di belgi" dice con voce sommessa
un giovane. Da ieri, quello stadio è chiuso ad ogni manifestazione
sportiva in segno di lutto. La finale di Coppa del Belgio
che si sarebbe dovuta giocare all'Heysel domani fra il Bruges
e il Beveren, sarà disputata all'Astrid Park dell'Anderlecht.
La decisione è stata presa dalla Federazione calcistica,
di concerto con il ministero dell'Interno, in omaggio alle
39 vittime. Mentre si apprende che la Federazione ha accolto
la richiesta del ministro degli interni Nothomb di non far
giocare più squadre britanniche in Belgio, e mentre viene
confermata la notizia proveniente da Londra secondo cui
la Federazione Inglese ha preso l'iniziativa di ritirare
dalle manifestazioni europee tutti i club ad essa affiliati,
si moltiplicano a Bruxelles le voci di protesta nei confronti
di un'organizzazione che non ha saputo evitare la carneficina
di mercoledì notte. Il partito socialista, attraverso il
suo presidente Spitaels, fa sapere che "le autorità sono
mancate di iniziativa e di idee nell'intervenire. E pensare
che il Belgio è il Paese che dispone del più alto numero
di poliziotti, con la percentuale di un agente per ogni
335 cittadini". Gli fa eco il deputato Eduard Klein, il
quale ha dichiarato con sdegno che "tutto ciò che è accaduto
mercoledì notte all'Heysel è assurdo", per cui domanda al
ministro degli Interni se sia logico che un gruppo di alcolizzati
sia stato aiutato dai negozi vicini che hanno in continuazione
fornito agli inglesi grandi quantitativi di bevande, nonostante
fosse vietato loro lo smercio nelle ore precedenti la finale
di Coppa dei Campioni fra la Juventus e il Liverpool". Già,
le bevande alcoliche. E' uno degli elementi fondamentali
su cui basarsi per le indagini. Nei giorni di martedì e
mercoledì abbiamo visto i negozianti vendere ettolitri di
bevande alcoliche (tifosi inglesi giravano addirittura con
cassette piene di bottiglie di birra e di vino) e la sera
piangere per le vetrine fracassate dai loro clienti. Un
barman, di origine francese che non ha voluto dirci il nome,
racconta di aver visto una ragazzina sui 17-18 anni, in
jeans e maglietta rossa del Liverpool, bere in continuazione
da una bottiglia di vodka. La polizia vedeva ed avrà riferito.
Perché le autorità non sono intervenute con decreti straordinari
per impedire lo spaccio di alcolici almeno nel giorno della
finale ? Anche grazie a tali omissioni, i killer dello stadio
hanno potuto colpire a piacimento. Ancora il borgomastro,
Hervè Brouhon, sotto accusa. C'è chi chiede le sue dimissioni.
Lui replica di "non avere l'autorità per vietare ai rivenditori
lo smercio di sostanze alcoliche". Un pittore che espone
fino a tarda notte a Rue Deboucher, un delizioso angolo
vicino alla famosa Grande Place, spiega che "mercoledì mattina,
di fronte al palazzo della Borsa teppisti inglesi lanciavano
verso i passanti bottiglie di vetro con inaudita crudeltà.
Una Peugeot 504 della polizia stazionava lì vicino, ma gli
agenti se ne restavano impassibili". Conclusione: paura
o colpevole indifferenza ? Questo è l'assurdo dilemma a
cui tutti noi vorremmo presto dare una risposta logica.
Nel panorama di sdegno non manca il parere del vice primo
ministro Gol, sgomento di fronte ad una simile tragedia.
Ha parlato alla stampa presso il palazzo di giustizia: "è
stata commessa un'atrocità, - ha dichiarato - un atto di
barbarie intollerabile. La partita è stata giocata soltanto
per ragioni di sicurezza da ragazzi che non volevano scendere
in campo, mentre c'era chi faceva il triste computo delle
vittime. Sulle misure di sicurezza viene spontaneo un interrogativo:
perché non è stato decretato, nella circostanza, lo stato
d'emergenza. Conto di presentare un progetto di legge sulla
carenza di norme di sicurezza, di cui il pubblico avverte
l'impellente necessità per evitare che dentro allo stadio
mettano piede elementi che vogliono guastare una festa sportiva".
A posteriori, si ha il parere conciliante che la reazione
più violenta ha l'assurdo sapore dell'inutilità, dell'impotenza.
Oggi è facile piangere i morti. Finora abbiamo ascoltato
soltanto poche persone ammettere che la colpa è collettiva,
che certe cose si sapevano, che forse si prevedevano e che
non si è fatto nulla per evitarle. Il calciatore belga Francois
Van Der Elst (attaccante dell'Anderlecht che ha giocato
a Londra nel West Ham per un anno circa) nel dichiararsi
stupito della violenza degli inglesi, sottolinea che "le
responsabilità sono da addebitarsi soltanto ai fans del
Liverpool, che vanno perciò emarginati, radiati da tutti
gli stadi d'Europa. Una punizione esemplare va data, anche
se penalizzerà i tifosi moderati e il club. Gli organizzatori
hanno comunque commesso il grave errore di sottovalutare
la pericolosità di quella gente". Le immagini televisive,
il rilievo che i mezzi d'informazione danno logicamente
al tragico evento hanno scosso il popolo belga. La gente
che s'incontra per strada, nel bar, i taxisti, il personale
di servizio dell'albergo che ci ospita non fa che ripetere
con sincera umiltà che quanto è accaduto in quella curva
"Z" è "un'atrocità di cui il Belgio deve vergognarsi, e
che perciò chiede scusa a tutti gli italiani. Non siamo
cattivi, ma abbiamo sbagliato". Lasciamo Bruxelles con queste
immagini e queste parole dentro. Poco per consolarci. Troppo
poco di fronte a quella morte atroce di 38 innocenti, vittime
della selvaggia premeditazione di un gruppo di teppisti
inglesi. Nulla se pensiamo a quella frase di un medico:
"Se avessimo avuto più mezzi a disposizione, ne avremmo
salvati moltissimi !".
1 giugno 1985
Fonte: La Stampa
ARTICOLI STAMPA BRUXELLES
1.06.1985
di Mauro Benedetti
BRUXELLES - "Noi siamo
tutto cuore con questa gente - dice Paola di Liegi in una
traduzione letterale in quell'italiano ormai quasi dimenticato
- con questa gente che è qui che piange. Siamo sconvolti
come loro da questa tragedia. Questa gente che era venuta
per divertirsi e che adesso va via in queste bare. Noi che
rimaniamo qua porteremo sempre ricordo di questa tragedia".
Le lacrime della principessa si mescolano a quelle dei parenti
venuti dall'Italia a riportare i corpi dei loro cari. Nel
gigantesco hangar dell'aeroporto militare di Melabroeck
le ventuno casse sono allineate contro la parete di fondo
tappezzata in nero. Il primo ministro belga, Martens, dice
poche parole di condoglianze a nome del suo governo. Le
ripete in francese e in italiano. Tre sacerdoti benedicono
le salme mentre nell'aria si alzano le note del "Valzer
delle candele" suonato al pianoforte con una sola mano.
Lacrime no. Pianti e singhiozzi, grida e svenimenti. L'atmosfera
è incredibilmente tesa. I cordoni di polizia disposti per
frenare la gente vengono travolti quando alla fine della
cerimonia ognuno dei parenti si avvicina alla bara del proprio
congiunto. Susanna Agnelli, in piedi in mezzo alla calca,
ha le lacrime agli occhi e non riesce a trovare parole:
"Una tragedia infinita. Non riesco ancora a rendermene conto.
Come tutti gli altri italiani sto piangendo e soffrendo
per questi morti". Le chiedono della partita, della Coppa,
della Juventus. Non ha voglia di parlare, cerca di sottrarsi
alle domande. Tutti nell'hangar, dall'ambasciatore d'Italia
ai rappresentanti britannici e quelli belgi, si rendono
conto che questi morti sono il risultato di una incredibile,
sconcertante catena di errori. Ma ormai non c'è che da caricare
le salme sui tre aerei militari che sono venuti a prenderle
e ripartire per l'Italia con questo fardello di dolore.
Mentre i tre velivoli della nostra aeronautica decollano,
all'aeroporto di Zaventem scende l'aereo dell'Alitalia con
a bordo Michel Platini e Stefano Tacconi, accompagnati da
Francesco Morini. Vengono accolti da una macchina della
Fiat che li conduce dapprima all'ambasciata italiana e poi
li porta all'ospedale di Villvoorde e al Vbu, che è un altro
ospedale di Bruxelles. Qui sono ricoverati i feriti italiani
meno gravi e qui i giocatori della Juventus si recano per
portare il loro cordoglio e la loro solidarietà. I giocatori
della Juventus rientreranno questa sera a Torino con il
volo delle 21.40, mentre altri di loro sono andati ad aspettare
ai vari aeroporti italiani i parenti delle vittime che rientrano
in Italia. Qui a Bruxelles la tragedia ormai si stempera
in mille rivoli: storie sulla partita decisa a tavolino,
storie sul tifoso juventino che spara (è ormai comprovato
che si trattasse di una lanciarazzi e che non abbia colpito
assolutamente nessuno), storie sui bossoli rinvenuti per
terra nello stadio dell'Heysel (bossoli che appartengono
a una pistola di tipo automatico). Le accuse e le controaccuse
rimbalzano fra le autorità belghe dal ministero degli Interni
al capo della polizia, al borgomastro di Bruxelles. Quello
che è certo è che qui, sul terreno verde di un campo di
calcio, trentun italiani sono morti con l'unica colpa di
essere venuti a sostenere la loro squadra del cuore.
1 giugno 1985
Fonte: La Stampa
ARTICOLI STAMPA BRUXELLES
1.06.1985
di Mauro Benedetti
Ieri
sera il rientro in Italia di dieci salme - Oggi il rimpatrio
delle altre 21. Penoso tentativo della tv belga di passare
e ripassare il filmato del tifoso juventino the spara con
la pistola-starter.
DALL'INVIATO. BRUXELLES
- Pochi occhi italiani hanno seguito ieri sulla pista dell'aeroporto
di Zaventem il rullare cupo dei due aerei che riportavano
a casa i morti dell'Heysel. Occhi neri di meridionali, occhi
lontani di immigrati. Cinque ragazzi, dialetto stretto calabrese
parlato sotto il naso di efficientissimi (ora) poliziotti.
Solo loro. Bruxelles non ha visto passare le dieci bare,
le prime che tornano. Dall'ospedale militare sperduto come
una roccaforte nelle campagne della periferia estrema, un
pianale merci trainato da una motrice ha portato le bare
allineate, coperte da una bandiera tricolore fino all'aeroporto
civile dove aspettavano l'Hercules e il DC-9 della nostra
aeronautica. Due soldati belgi, aggrappati alle sponde,
erano la scorta d'onore. Dietro, le macchine dell'ambasciatore
e il pullman con i parenti distrutti. Tre telecamere, quattro
fotografi, i ragazzi calabresi e noi. Nessun altro. Nel
ventre enorme dei due cargo si perdono le bare, divise per
destinazione, Nord il C-130, Sud il DC-9. I parenti siedono
sui lati, legati alle cinture. Sull'Hercules sono sedici.
Una sola va a Torino: Vanna De Biase, sorella di Loris Messore.
"Ho un fratello ancora in ospedale. Sta meglio ma è fuori
di sé. Non parla. I medici dicono: lo choc. Mi ha fatto
una pena infinita. Ora accompagno Loris. E pensare che sono
andati via gridando: torniamo con la Coppa. Lui torna morto,
l'altro chissà quando. Non ho più voglia di parlare". E
il silenzio è fitto nella carlinga immane. Crea un muro
al rumore possente dei motori che diventa sfondo indistinto.
Lì dentro c'è sapore di chiesa, di lacrime. La morte è lì
in quelle casse di legno scuro. Volano via, pesanti, quasi
goffi, i due aeroplani. Uno a Torino-Milano-Pisa l'altro
a Roma e Napoli. Torneranno oggi, o ne verranno altri non
si sa. Ventuno corpi aspettano ancora, stamattina verranno
a prenderli. Alle dieci cerimonia ufficiale poi via altro
carico d'angoscia. Al funerale ci saranno le autorità belghe
e italiane, si parla anche di Pertini, ma quasi certamente
non verrà. Ci saranno invece gli altri parenti, giunti ieri,
che hanno dormito a casa di italiani qui a Bruxelles. Poi,
alle 11, tutti in Italia, verso tanti diversi camposanti.
Ventuno, più dieci, trentuno uccisi dalla furia bestiale
degli inglesi e dalla incredibile capacità della polizia
belga. Nothomb, ministro dell'Interno, cerca il recupero
di credibilità mettendo al bando gli "Hooligans". Ma qui
a Bruxelles si parla di un'inchiesta aperta ufficialmente
per stabilire se sia vero che un fans del Liverpool abbia
disarmato un imberbe poliziotto sparando poi con la sua
pistola. Ufficialmente le autopsie dicono che nessuno dei
morti ha ferite da arma da fuoco o da taglio. Abbiamo chiesto
a uno dei nostri diplomatici se un medico italiano abbia
assistito alle perizie: "Le hanno fatte in un ospedale militare
e poi che motivo avrebbero di mentire". Un poliziotto disarmato
è un buon motivo. "Credo che ci sia un'inchiesta su questo
aspetto". Ma di ora in ora si evidenziano le pesanti responsabilità
della polizia e di chi la guidava. "Lunedì scorso ero al
mare ad Ostenda - dice Carlo, un ristoratore di rue Duquesnoy,
oriundo italiano - e ho visto i primi supporters del Liverpool
appena arrivati già ubriachi che insultavano la gente per
la strada davanti a due poliziotti immobili. Lunedì, dico.
Tutti sapevano come sono gli inglesi. Martedì ho chiuso
il locale alle 17 perché spaccavano le vetrine lungo la
strada". Osvaldo Gammino, caposcalo della Sabena a Milano:
"Noi abbiamo organizzato dei charter, ero con i miei gruppi
allo stadio. La gente scappava fuori, terrorizzata, ferita.
Gli autisti dei pullman visti i tafferugli, sono fuggiti
con i mezzi lasciando i nostri tifosi a piedi, la polizia
che pure custodiva il parcheggio non ha fatto nulla per
fermarli. Ho visto gente arrivare in aeroporto e, pur avendo
il volo charter pagato, prendere un altro biglietto per
Milano, Roma, Venezia dovunque si potesse arrivare purché
in Italia. Alcuni dei nostri sono arrivati alla stazione,
sono saliti sul primo treno e li abbiamo recuperati fuori
dal Belgio un'ora dopo". Questa fuga indiscriminata e angosciata
dallo stadio dell'Heysel potrebbe aver anche prodotto un
risultato fino a questo momento inaspettato: un tifoso italiano
sarebbe disperso e nessuno è in grado di sapere se e dove
sia finito. L'ambasciata d'Italia per il momento non conferma
né smentisce la notizia. Il Consolato italiano ne conoscerebbe
anche il nome, sarebbe di Torino. E pare proprio che dall'appello
manchi una persona. "La polizia non ha capito che gli italiani
stavano invadendo il campo per sfuggire alla morte e li
ha picchiati, invece di fermare gli inglesi. I nostri scappavano
e loro li ricacciavano indietro verso i tifosi del Liverpool".
Il racconto è di Antonio, uno dei cinque calabresi all'aeroporto.
Ha una piccola radio privata e per tutta la notte ha lanciato
appelli agli italiani di quassù che, cercassero e ospitassero
gli eventuali dispersi. "A mio fratello gli hanno rotto
una spalla i poliziotti a forza di botte. Ho i referti,
è tutto vero. La colpa è loro, sono incapaci e feroci, più
gli dicevamo di fermare gli inglesi e più picchiavano noi".
Eppure in Belgio la polizia gode ottima fama. "Il fatto
è che qui non esistono grosse manifestazioni di folla, anche
i cortei dei lavoratori o quelli che vengono fatti alla
Cee sono poca cosa - spiega monsieur De Yong, il tassista
che ci riconduce dall'aeroporto a Bruxelles - e la polizia
non è abituata. Qui il rispetto per l'autorità è molto forte
e la polizia ha creduto che bastasse dire agli inglesi di
stare buoni che loro sarebbero stati buoni. Un errore di
supervalutazione delle proprie forze". Nelle parole della
gente, nei bar, nelle brasseries non ci sono dubbi: "Les
englais il sont des bétes, il sont des assassina". Ma a
livello ufficiale, qui a Bruxelles, le cose stanno impercettibilmente
cambiando. Interdetti, è vero, ai tifosi e alle squadre
d'oltre Manica i campi belgi, ma mentre in un primo tempo
non c'erano dubbi sulla matrice della violenza, ora la tv
belga si comporta in modo piuttosto strano, fa vedere e
rivedere l'immagine di un ragazzo vestito di verde, indubbiamente
un tifoso juventino, che spara con una pistola. Una pistola
che non può essere che una lanciarazzi, in quanto la fiammata
che esce dalla canna è di dimensioni molto superiori a quella
di un'arma da fuoco normale. Eppure questa immagine ripetuta
in modo ossessivo lascia insinuare un qualche dubbio nell'animo
di chi sta a guardare. Non solo. La stessa televisione belga,
ieri sera, ha trasmesso una clamorosa notizia seconda la
quale la partita giocata all'Heysel sarebbe stata truccata
nel senso che un piccolo comitato ristretto avrebbe deciso
di far comunque vincere la Juventus come per un ridicolo
"risarcimento" per i caduti sul terreno. L'arbitro svizzero
Deyna che ha arbitrato la partita ha assolutamente smentito
una situazione del genere e anche il segretario del Liverpool,
mister Robinson, ha negato che si sia trattato di una combine.
Sempre a proposito di Juventus, per questa mattina si aspettano
Francesco Morini, Stefano Tacconi e Michel Platini che vengono
a Bruxelles per visitare i feriti.
1 giugno 1985
Fonte: La Stampa
ARTICOLI STAMPA BRUXELLES
1.06.1985
Indagini anche a Torino:
si può individuare chi ha "sparato".
BRUXELLES - Sul campo di
gioco sono stati ritrovati sei bossoli da otto millimetri
di cartucce bianche marca Fiocchi-Lecco: sarebbe la prova
che a sparare è stata una scacciacani, una pistola "starter"
(ma potrebbe essersi trattato anche di una pistola lanciarazzi),
impugnata da quel ragazzo dal giubbotto verde chiaro che
le televisioni di tutto il mondo hanno ormai fissato nella
memoria collettiva come una delle immagini-simbolo del devastante
teppismo degli stadi. "Le soir", un quotidiano della sera
di Bruxelles, ha preso le distanze, nella sua edizione di
ieri, dai commenti della tv Inglese, prima, e di quella
belga, dopo, avanzando persino il dubbio che il tifoso con
la pistola in pugno potesse non essere italiano e sottolineando
la non drammaticità dell'episodio. Nessuno infatti è morto
o è stato ferito da un'arma da fuoco. C'è anche una testimonianza.
E' di un giovane di Porto Tolle, Claudio Negri, intervistato
da un collega dell'Ansa al rientro in Italia. Il ragazzo
dice: "Ero vicino a chi sparava, era uno dei nostri. Ma
posso assicurare che nella mano destra teneva stretta una
pistola lancia petardi o giù di lì. Poteva fare solo rumore,
non certo danni. Sembra che lo sparatore fosse stato persino
fermato dalla polizia all'ingresso nello stadio. L'episodio
si sarebbe verificato poco prima dell'inizio del match,
allorché dalla curva dei supporters bianconeri, ascoltato
l'appello di Scirea "giochiamo per voi", gruppi di giovani
dal viso coperto hanno invaso il campo, accennando a caricare
la polizia schierata. Non volevano, come hanno spiegato
poi, che si disputasse il match. Gli agenti belgi, dunque,
sarebbero stati l’"obiettivo" del ragazzo con la pistola.
E non c'è dubbio, a questo punto, che si trattasse di un
tifoso juventino. Si sospetta persino che possa trattarsi
di un torinese. In via Grattoni, sede della Questura, hanno
richiesto il filmato alla Rai ed esaminato attentamente
i fotogrammi che permettono di identificarlo. Quel volto
verrebbe già associato ad un nome e cognome, già noto per
atti di vandalismo. Si parla persino di un fascicolo assai
spesso raccolto dalla "squadra mobile a suo carico". Se
il sospetto fosse confermato, è evidente che quel giubbotto
verde potrebbe essere rintracciato rapidamente. Anche la
bandiera tricolore con il simbolo dell'organizzazione di
estrema destra disciolta Ordine Nuovo Nero, disegnato sulla
striscia bianca, è stato un "particolare" inquietante del
tifo della curva gestita in prevalenza dai tifosi torinesi
della Juventus. Non c'è dubbio che i club ufficiali non
abbiano avuto a che fare con queste manifestazioni di simpatia
politica esibite in eurovisione, ma lo stendardo campeggiava
visibilissimo davanti alle frange degli ultras più esagitati.
Anche su quella bandiera la magistratura farebbe bene ad
indagare, per chiarire, per cominciare, le connessioni tra
il tifo calcistico e l'area dell'avanguardismo fascista.
Intanto sale di tono la polemica per i biglietti falsi venduti
per il settore della strage. Da Liverpool i dirigenti della
società di calcio hanno fatto sapere di aver schedato tutti
i 14.500 acquirenti dei biglietti venduti attraverso il
club e che nella curva "Z" avrebbero dovuto trovar posto
solo novemila persone, mentre ne sono entrate quindicimila
almeno. C'è da aggiungere che, oltre ai trentamila rimasti
fuori, molti sono entrati allo stadio con il biglietto intatto
o addirittura senza tagliando.
1 giugno 1985
Fonte: La Stampa
ARTICOLI STAMPA BRUXELLES
1.06.1985
"Agenti picchiavano gli
italiani in fuga sugli spalti per salvarsi"
di Bruno Perucca
I proprietari dei bar si
difendono: "Nessuno ci ha imposto di chiudere".
DAL NOSTRO INVIATO. BRUXELLES
- La città, i giornali, le televisioni, sono severi con
chi doveva garantire la sicurezza dello stadio Heysel. Tre
i ragazzi belgi morti: Jean Michel Walla, Willy Chielens,
Dirk Daenecky. E gli scampati dall'inferno della curva "Z"
raccontano. Bernard Compagnon, 25 anni, medicato all'ospedale
universitario con altri 20 amici: "Era una zona apparentemente
tranquilla, noi belgi, tanti italiani del Belgio e altri
italiani arrivati per la partita. Famiglie, molti bambini.
C'era una buona organizzazione all'ingresso, ma a guardia
della rete che ci divideva dai tifosi del Liverpool c'erano
sì e no dieci poliziotti. Perché non sono state ripetute
le misure di sicurezza dello scorso anno, a maggio, quando
per la finale di Coppa Uefa tra l'Anderlecht e gli inglesi
del Tottenham la griglia era protetta da un cordone di poliziotti
per lato ?". L'accusa è precisa, grave. Un'esperienza era
stata fatta, per una partita tra una squadra belga (l'Anderlecht
è il più famoso club di Bruxelles) ed una britannica, e
non è stata sfruttata. Jacques D'Heur era anche lui nell'area
della tragedia, aggiunge particolari agghiaccianti: "Ero
schiacciato contro quel muro che poi ha ceduto, sono riuscito
a salvarmi aggrappandomi ad una transenna. La polizia era
stordita, sorpresa dagli avvenimenti. Gli agenti picchiavano
gli italiani che saltavano oltre i corpi di chi era caduto,
credendo che volessero invadere il campo mentre volevano
soltanto salvarsi. Ho cercato di dare una mano, un uomo
mi è morto tra le braccia con la gola squarciata". Jean-Claude
Dejet ha telefonato spontaneamente al quotidiano Le Soir
di Bruxelles: "Ero in quella curva, sono belga ma tifoso
del Liverpool. Solo una minoranza dei fans inglesi si sono
gettati su di noi, ma avevano gli occhi sbarrati e la bava
alla bocca. Mi aspettavo di essere frugato, perquisito,
all'ingresso dalla polizia. Nulla, per me come per centinaia
di altri. Una leggerezza imperdonabile. Tra quei maledetti
che ci sono saltati addosso c'erano dei ragazzini, il cranio
rasato, a torso nudo e coperti di tatuaggi. Sembravano impazziti".
Testimonianze, scelte fra le molte, di gente di Bruxelles
che non scorderà la notte dell'Heysel. Un amico greco, di
Rodi, da 26 anni nella capitale belga, che ci ha pregati
di non riportare il suo nome, si è scagliato contro la polizia:
"Gli agenti sono capaci soltanto di fare i duri contro persone
isolate, per ragioni di traffico o altro. Ma se devono affrontare
un gruppo, girano al largo. Un gendarme che abita vicino
a me mi ha detto il loro stipendio "non vale il rischio
di lasciarci la pelle". Non tutti così gli agenti, sicuramente,
ma in tutti un senso di disagio, l'idea che "un qualcosa"
non è stato previsto. Roger Lorie, istruttore di difesa
personale, uno dei poliziotti feriti (al capo, da una bottiglia),
sostiene: "C'era uno di noi ad ogni porta d'accesso, più
altri con i cani al guinzaglio. Ma questi pazzi scatenati
non avevano più nulla di umano. Ero in tenuta d'intervento,
purtroppo avevo lasciato il casco nella camionetta, come
altri miei compagni. Non pensavamo di andare ad una guerra
!". Quali micce, per questa guerra ? La birra belga è adesso
sotto accusa. In effetti, quando eravamo ancora a Liverpool
per seguire gli allenamenti dei "reds" avevamo già letto
sui giornali inglesi larvali avvertimenti: "Attenzione,
la birra belga è ben più alcolica e pesante di quella che
consumate in Inghilterra". Una precauzione vana, addirittura
un invito ? Di certo attorno allo stadio di Liverpool, l'Anfield,
prima del derby con l'Everton, avevamo visto i bobbies fare
cordone attorno ai pubs per evitare bevute eccessive, per
far sentire la loro presenza. A Bruxelles invece la birra
è entrata a fiumi nelle gole dei fans del Liverpool. Ora
sono sotto accusa i bar della zona limitrofa allo stadio,
soprattutto quelli dell'avenue Houba de Strooper che sono
rimasti aperti (almeno cinque su una ventina) in imminenza
della partita. I proprietari si difendono: "Nessuno ci ha
imposto, e neppure consigliato di chiudere. E poi molti
degli inglesi avevano acquistato le bottigliette il pomeriggio
nei grandi magazzini, addirittura a cassette. Inoltre per
noi era l'occasione dì un pomeriggio di guadagni extra".
1 giugno 1985
Fonte: La Stampa
ARTICOLI STAMPA BRUXELLES
1.06.1985
di Luciano Curino
Lo confermano i risultati
delle prime autopsie: soffocamento (la maggior parte), fratture
al capo e lesioni interne.
DAL NOSTRO INVIATO. BRUXELLES
- I familiari delle vittime dell'Heysel vengono per portarsi
via i loro morti. Chi il marito, chi il figlio o il fratello,
l'amico. Ve ne sono arrivati ieri con aerei militari, altri
arriveranno oggi. Alle 12.45 di ieri sono atterrati all'aeroporto
di Bruxelles un Hercules e un DC-9 partiti da Pisa e da
Milano, con 130 persone. Quasi un centinaio sono venute
per trovare parenti feriti, subito pullman dell'esercito
italiano le hanno portate nei diversi ospedali. Trentacinque
i familiari dei morti, due pullman li hanno portati all'ospedale
militare dove sono tutte le salme. Quelli di ieri erano
i parenti delle dieci vittime per le quali è già stata eseguita
l'autopsia, poi composte in bare zincate, tutte uguali.
Sono ripartiti con le salme nella tarda serata, in volo
via Milano-Pisa-Roma. Arrivano oggi i familiari delle altre
vittime, la cui autopsia è stata completata ieri dall'equipe
medico-legale del tribunale militare. L'esame ha accertato
che le vittime dello stadio sono morte per frattura al capo,
lesioni interne, la maggior parte per soffocamento. Morti
asfissiati sotto il mucchio delle persone cadute nella fuga.
Il colonnello André Jacquers, direttore dell'ospedale militare,
dice che molti si sarebbero salvati se all'Heysel vi fosse
stata un'equipe di rianimazione, con bombole di ossigeno
e quanto altro occorre in casi del genere. All'ospedale
militare hanno lasciato entrare solo i parenti. Non hanno
potuto vedere i loro cari perché le bare erano già chiuse.
Meglio così, forse. Meglio non vedere un volto sfigurato,
restare all'ultimo ricordo: un ragazzo che saluta e parte
felice, eccitato per l'avventura di Bruxelles, che gli amici
gli invidiano. C'era con questo gruppo l'arbitro di calcio
Agnolin, venuto per riportare a Bassano del Grappa l'amico
fraterno fin dai banchi di scuola, Mario Ronchi, industriale
di 43 anni, e un altro amico, Amedeo Spolaore, dentista
di 50 anni. Soltanto il primo poteva essere portato via
ieri, lo Spolaore oggi. Agnolin ha chiesto che i due restassero
uniti, per ritornare assieme a Bassano, come assieme ne
erano partiti. E il Ronchi è rimasto qui, ieri sera l'aereo
invece di ripartire con le dieci bare previste, ne aveva
nove. Sono stati riportati a casa Rocco Acerra, di 29 anni,
Giancarlo Bruschera, di 34 anni, Nino Cerullo, di 24, Roberto
Lorentini, di 31, Giancarlo Gonnelli, di 46, Franco Martelli,
di 23, Gianni Mastroiaco, di 20, Loris Messore, di 28, Rino
Venturin, di 23. Dice Agnolin che nel viaggio e nella camera
ardente i parenti delle vittime "nel dolore sono stati tutti
molto dignitosi". Un comportamento "commovente e splendido".
Gli domandano un commento di questa tragedia, risponde:
"Una cosa troppo grande, enorme. Difficile esprimersi".
C'è chi gli chiede se arbitrerebbe una partita con tifosi
inglesi sugli spalti. "Preferisco non rispondere". Con i
familiari delle vittime è venuto l'ambasciatore in Belgio,
Saragat. Dice che una cerimonia funebre sarà celebrata questa
mattina nella cappella dell'aeroporto militare di Melsbruch.
Gli domandano se ci sarà una presenza italiana nell'inchiesta
sulla sciagura. "Penso di sì". Il numero dei feriti diminuisce
negli ospedali. La maggior parte di quelli ricoverati ha
fratture. Quattro dei sei che avevano la prognosi riservata
sono stati dichiarati ieri fuori pericolo. Ancora grave
è la signora Laura Bianchi, di 27 anni, abitante a Finale
Ligure con il marito Giorgio, che è idraulico, e due bimbi.
Mercoledì era con il marito nel settore "Z". Sono scappati
per l'assalto degli inglesi, come tutti. Lei è caduta, subito
il marito le ha teso una mano per rialzarla, ma è stato
spinto dalla folla impazzita, trascinato in basso, lontano,
impossibile sottrarsi alla calca. Appena vi è riuscito,
è risalito per cercarla, non l'ha trovata. E' corso fuori
dallo stadio, dove trasportavano i feriti e ammucchiavano
i morti. Non c'era. E' ritornato nel campo, tra corpi esanimi
ha intravisto una maglietta verde, come quella della moglie.
Era lei, lì tra molti cadaveri. "Sono tutti morti", ha sentito
che gli gridavano. Se l'è stretta in un abbraccio e gli
è sembrato di sentire un respiro. Le ha praticato la respirazione
artificiale, poi portandola tra le braccia è corso alle
ambulanze. Dopo averla affidata ai medici dell'ospedale
è andato a Finale per tranquillizzare i bimbi, subito è
ritornato a Bruxelles. C'è anche la storia di un ragazzo,
portato via dallo stadio e messo là dove erano i morti,
coperto con un telo. Qualcuno è andato a cercare tra i cadaveri
un parente disperso, ha sollevato il telo, si è accorto
che il ragazzo respirava, ha chiamato la Croce Rossa, che
è arrivata appena in tempo per rianimarlo e salvarlo. Sono
molte le storie dell'Heysel. Tutti quelli che erano nel
settore "Z" hanno la loro storia da raccontare. Tutte storie
indimenticabili.
1 giugno 1985
Fonte: La Stampa
ARTICOLI STAMPA BRUXELLES
1.06.1985
Bruxelles, scambio di accuse
tra responsabili della sicurezza
di Enrico Singer
Filmato trasmesso da tv
inglese: ultrà italiano spara contro la polizia - I Belgi:
"Era una scacciacani".
DAL NOSTRO INVIATO. BRUXELLES
- Il giudice del tribunale di Bruxelles che conduce l'inchiesta
sulla strage di Heysel è una donna, la signora Stephane
Coppieters Wallant. Ha l'aria decisa, dosa le parole, non
si sbilancia. La polemica sull'organizzazione del servizio
di sicurezza per la finale Juventus-Liverpool cresce: nessuno
se la sente di accettare la tesi della "fatalità" invocata
dal ministro dell'Interno Nothomb e dal borgomastro di Bruxelles,
Brouhon. Si levano richieste di dimissioni. E molto dipenderà
dai risultati del procedimento "per omicidio colposo plurimo
contro ignoti" appena avviato. La signora Coppieters Wallant
dice che indagherà in tutte le direzioni, che l'inchiesta
non si fermerà di fronte a nessuno, se saranno accertate
delle responsabilità. Ma il suo lavoro si presenta lungo.
I primi colpevoli del massacro, gli "hooligans" (quella
banda di teppisti confusa tra i tifosi inglesi che ha scatenato
l'assalto), sono ormai a Liverpool. Gli altri protagonisti,
comandanti di gendarmeria e polizia, sindaco, ministro -
tutti quelli che dovevano garantire la sicurezza - si rinfacciano
i ritardi, si trincerano dietro gli imprevisti. Nell'inchiesta
entrano anche elementi che allontanano l'obiettivo da quanto
è successo nel settore "Z" dello stadio di Heysel. La rete
televisiva inglese Itv ha trasmesso un filmato in cui si
vede un giovane con il giubbotto verde che si stacca da
un gruppo di tifosi italiani (dall'altra parte del campo)
con una pistola in mano. Raggiunge la pista di atletica
sul bordo del terreno di gioco, mira contro gli agenti di
polizia: l'arma prima si inceppa, poi esplode un colpo.
Il giovane lancia anche un sasso prima di rientrare nelle
gradinate. Il tribunale di Bruxelles ha chiesto alla Itv
una copia del filmato. Probabilmente la esaminerà dopo il
weekend che già ieri stava spopolando strade e uffici. Ma
la signora Coppieters Wallant è prudente. Ha già gettato
dell'acqua sul fuoco: la polizia, che per due giorni ha
setacciato lo stadio, ha trovato soltanto un bossolo di
scacciacani e nessuno è stato ferito da colpi di arma da
fuoco. Per ora, almeno, sono altre le domande che attendono
una risposta. Prima di tutto l'inchiesta cerca di stabilire
se l'esplosione di violenza collettiva che ha rovinato la
festa di Heysel poteva essere contenuta, se le misure di
sicurezza erano adeguate. L'anno scorso, in maggio, nello
stadio di Bruxelles fu giocata la finale di Coppa Uefa Anderlecht-Tottenham.
Lungo la doppia ringhiera che gli "hooligans" hanno sfondato
mercoledì, allora erano stati schierati 400 agenti (200
per parte) a dividere i tifosi belgi da quelli inglesi.
Ci furono lo stesso degli incidenti: due morti, uno fuori
e uno dentro lo stadio. La linea morbida scelta per la partita
fra Juventus-Liverpool appare sempre più imprevidente. Così
come ha stupito e indignato i Belgi che erano davanti alla
tv, i due comandanti di gendarmeria e di polizia restare
molti minuti ai loro posti in tribuna d'onore, dopo il massacro.
Anche la tesi della separazione "geografica" dei tifosi,
sostenuta dal ministro dell'interno Nothomb nella sua conferenza
stampa di giovedì ormai saltata quando il 12 maggio, alle
9 del mattino, i botteghini dello stadio cominciarono a
vendere i 4 mila biglietti del settore Z (che doveva essere
un cuscinetto di spettatori belgi, e quindi neutrali). In
fila c'erano migliaia di italiani. E quei biglietti erano
gli unici che lì trovavano ancora prima della partita al
mercato nero per 3 mila franchi, quasi 100 mila lire. Tra
gli spettatori del settore Z si trovava anche l'unica vittima
inglese della strage, calpestata e soffocata con gli altri
(31 italiani, 4 Belgi e 2 francesi) nella disperata fuga
seguita all'assalto degli "hooligans". Patrick Radcliffe,
38 anni, archivista, nord irlandese, era andato alla partita
con altri amici, (un comunicato della gendarmeria ha smentito
ieri ufficialmente la notizia, diffusa nelle ore seguenti
della tragedia, secondo la quale Radcliffe era stato accoltellato
da un italiano fuori dallo stadio. Il tifoso ferito in città,
prima della partita è nell'Ospedale St. Jean e le sue condizioni
non sono gravi.
1 giugno 1985
Fonte: La Stampa
ARTICOLI STAMPA BRUXELLES
1.06.1985
di Leonardo Coen
BRUXELLES - Ecco madame
Marina Coppieters't Wallant, una gentile e minuta signora
di mezza età, lontane origini nobili fiamminghe, madre di
tre figlie e titolare dell'ufficio numero 312 al quarto
piano del nuovo Palazzo di Giustizia di Bruxelles. Oggi
è la donna più temuta del Belgio. Perché è lei che ha in
mano la delicata inchiesta generale sulla strage dello stadio
Heysel, perché è lei il giudice istruttore che potrebbe
incriminare per imprudenza ed imperizia non soltanto gli
organizzatori della partita di calcio e i responsabili dell'ordine
pubblico, ma anche i massimi vertici politici: al limite,
lo stesso ministro degli Interni, il barone Charles-Ferdinand
Nothomb. Questa eventualità formalmente è infatti possibile:
da molte parti si è detto "trentanove morti, forse quaranta
se la ragazza in coma all'ospedale universitario fiammingo
non ce la farà, valgono bene la testa di un commissario,
di un ufficiale della gendarmeria e, soprattutto, di un
uomo politico, sia esso il borgomastro di Bruxelles o il
ministro Nothomb". In questo caso il percorso giudiziario
passerebbe dalle parti del procuratore reale, il quale a
sua volta dovrebbe trasmettere gli atti al procuratore della
Corte di cassazione e di qui si arriverebbe al presidente
della Camera. A meno di auspicate dimissioni... "Io dico
solo questo - si schermisce madame Coppieters, nel suo ufficio
pieno di piante - la mia sarà una lunga, completa, oggettiva
inchiesta. Non escludo nulla e perciò seguirò ogni pista,
valuterò ogni ipotesi. Verificherò se il servizio d'ordine
approntato era adeguato ai compiti. Se ci sono responsabilità
degli organizzatori. Voglio stabilire la verità di quella
notte. Nei minimi dettagli". I quotidiani belgi già la chiamano
"signora di ferro", non a caso ironizzando sulla Thatcher,
primo ministro di un popolo che ha generato "simili barbari":
e però questa bionda magistrato ha già appurato che i trecento
"hooligans" inglesi che hanno provocato la strage di mercoledì
sera non erano affatto ubriachi bensì lucidi. Gente venuta
allo stadio per provocare disordini. Veri e propri professionisti
della violenza. Di questi trecento mascalzoni si hanno foto
e filmati: "Sarò io personalmente a visionare il materiale".
In Inghilterra, grazie alla collaborazione delle autorità
e di Scotland Yard (molti di quei trecento sembra vengano
da Londra) si pensa prima o poi ad individuarne ed arrestarne
qualcuno. L'istruzione sta intanto valutando attentamente
il ruolo da tutti criticato del servizio d'ordine. Una sola
certezza: la polizia della città di Bruxelles ne esce assolta.
Perché la porzione di stadio ad essa assegnata era quella
detta dell'Atomium, dalla parte opposta cioè al disgraziato
settore Z. Qui stavano invece i gendarmi, i carabinieri
belgi. Allora, la polizia era meglio organizzata ? "Non
si tratta di sollevare rivalità fra corpi diversi. Sarà
la mia inchiesta a stabilire se tutto era regolare: per
ora non posso darle nessuna risposta". Fortunati i poliziotti
ad avere avuto i settori N ed M, occupati da sedicimila
tifosi juventini ? Mica tanto; la battaglia da quella parte
del campo non è stata tutta rose e fiori. Ventisette poliziotti
comunali sono finiti all'ospedale, di cui tre commissari.
Un brigadiere e due ispettori principali con le ossa rotte.
I giornali anglosassoni ne hanno approfittato pubblicando
la foto di uno juventino che punta una pistola contro un
poliziotto: "era una scacciacani" ribatte, sdrammatizzando,
il giudice Coppieters, è bastato l'esame del primo reperto
indiziale, un bossolo recuperato subito dopo la partita.
Ieri in serata sono stati trovati altri 29 bossoli e 6 cartucce
di pistole "Starter". In compenso sugli spalti della curva
Z dove a dispetto delle preoccupazioni tanto decantate,
erano presenti 5 mila italiani ad appena tre metri da 11
mila inglesi, i gendarmi latitavano. Chi aveva immesso assieme
inglesi e juventini ? Madame Coppieters glissa, "da noi
l'istruttoria è segreta". Tuttavia nei prossimi giorni verranno
convocati dei testimoni invitati a parlare di "tours operators",
di biglietti destinati al mercato belga, rastrellati e finiti
in Italia perché queste erano le "esigenze di mercato".
L'Union Royale Belge Des Societès de Football Association,
presieduta dall'avvocato Louis Wouters, risponderà che ha
agito con la massima prudenza: 57 mila 402 biglietti venduti,
11 mila dei quali all'inizio di maggio. Tra questi, i maledetti
biglietti della morte, quei posti in piedi a 300 franchi
(10 mila lire), del settore Z. E i 14 giovanotti arrestati
dalla polizia subito dopo il massacro ? Martedì ci sarà
il processo per direttissima: "Non per reati collegati direttamente
coi morti - precisa Madame Coppieters - sono accusati di
furti, di resistenza, di oltraggio. Così com'è falso scrivere
che tra le vittime ci sia un inglese accoltellato. Patrick
Radcliff era con degli amici sugli spalti dell'Heysel. L'equivoco
forse è nato perché poche ore prima in piazza Broucker,
un italiano aveva accoltellato un inglese al ventre ed a
una coscia. Ferite gravi, ma non mortali".
1 giugno 1985
Fonte: La Repubblica
ARTICOLI STAMPA BRUXELLES
1.06.1985
ROMA - Non c'è stato nessun
"banchetto" dei giocatori della Juventus dopo la partita
con il Liverpool. La voce, rimbalzata da Bruxelles e ripresa
con il condizionale da alcuni quotidiani, è stata definita
"priva di ogni fondamento" dalla direzione dell'hotel scelto
dalla squadra torinese per la sua sosta nella capitale belga,
il Sofitel. "Non c'è stato nessun banchetto dei giocatori
della Juventus, nessun banchetto e nessuna festa" ha dichiarato
il direttore dell'albergo.
1 giugno 1985
Fonte: La Stampa
ARTICOLI STAMPA BRUXELLES
1.06.1985
PISA - Carla Gonnelli,
la ragazza di 18 anni di Ponsacco, rimasta gravemente ferita
negli incidenti dello stadio va leggermente migliorando.
Ricoverata nell'ospedale di "Azvub" della capitale belga,
la giovane che era in coma per lo schiacciamento della cassa
toracica, è stata messa in un polmone d'acciaio e questo
sembra l'abbia salvata. Con un aereo messo a disposizione
dei familiari delle vittime dal nostro governo, l'hanno
raggiunta la mamma Rosalina e il fidanzato Stefano. Carla
non sapeva ancora che suo padre Giancarlo era morto.
1 giugno 1985
Fonte: La Stampa
ARTICOLI STAMPA BRUXELLES
1.06.1985
Arrestato, è torinese l'ultrà
della lanciarazzi
La pistola non poteva uccidere:
è infatti denunciato per oltraggio e resistenza - Lunedì
sarà processato.
BRUXELLES - (Ansa ore 12.35).
I cinque italiani arrestati a Bruxelles in occasione degli
incidenti di mercoledì sono - si apprende stamane da fonti
del ministero dell'Interno belga - Umberto Salussoglia,
22 anni, studente di Torino; Spedicato Franco, 25 anni,
di Lecce; Ardito Claudio, 25 anni, di cui si ignora la città;
B.C., minorenne, di Torino, e un certo Muggio Savino, di
cui si ignorano età e città. Tutti sono stati arrestati
dalla polizia, prima della partita: quattro di essi per
oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale. Un quinto per
l'accoltellamento di un tifoso. Secondo quanto si apprende
da fonti italiane, il Salussoglia sarebbe stato riconosciuto
da chi gli era accanto allo stadio come il giovane ripreso
dalla televisione britannica "ITV" nell'atto di sparare
con una scacciacani verso le forze dell'ordine sul terreno
dello stadio Heysel. Il Salussoglia è noto negli ambienti
degli "ultrà". Si ignora per il momento quando gli italiani
in stato di arresto passeranno di fronte alla "chambre d'accusation",
che deve deciderne l'eventuale rilascio. Lo stesso vale
per la quindicina di britannici in stato di arresto, per
lo più per oltraggio, ubriachezza e furto.
TORINO - Alto, con la barba,
un giubbotto verde: lo hanno visto tutti, nei telegiornali
di ieri, mentre all'Heysel, durante il finimondo di mercoledì
sera, sparava. E non è stato difficile identificarlo. Si
chiama Umberto Salussoglia, ha 21 anni, abita a Torino in
via (omissis) ed è un noto "Ultrà", con precedenti per atti
di teppismo negli stadi. Dalla "partita maledetta" non è
ancora tornato: è in galera a Bruxelles, arrestato per oltraggio.
Lo processeranno lunedì. Arrestato per oltraggio: l'arma
che impugnava, infatti, non era una pistola ma una lanciarazzi
senza il proiettile inserito. La fiammata è stata provocata
dalla polvere nera incendiata dal colpo del percussore.
Verrebbe da dire, allora, che Umberto Salussoglia non è
in fondo più colpevole di quei "reds animals" che tutti
abbiamo notato in telecronaca diretta buttare petardi, pietre,
bastoni, lattine e ogni sorta di oggetti contro gli scudi
dei gendarmi. Ma si passerebbe per sciovinisti. Resta però,
da più parti, il timore che l'episodio possa essere in qualche
modo strumentalizzato: "Vedrete che adesso all'estero ne
approfitteranno per ribaltare la situazione. Verrà fuori
che la colpa di tutto quel che è capitato è nostra", diceva
stamattina una testimone oculare dei fatti. Ma si potrà
dimenticare che questo è accaduto dopo il massacro, e non
prima; come effetto e non come causa ? E resta comunque
la violenza, che è regola e non eccezione nelle partite
di calcio: proprio il Salussoglia era stato fermato a Firenze,
nell'aprile dell'82, alla fine di un incontro Fiorentina-Juve,
insieme con altri 38 "ultras". E il suo nome compare nel
rapporto della polizia sui disordini durante l'ultimo derby
torinese: sarebbe stato fra i tifosi bianconeri che avevano
cosparso le gradinate di olio bruciato. Ora la magistratura
torinese aprirà un'inchiesta su di lui. Sembra che già questa
mattina sia stata ordinata una perquisizione in via (omissis).
Anche se, per il reato compiuto in Belgio, in Italia Salussoglia
non è perseguibile. e. fer.
1 giugno 1985
Fonte: Stampa Sera
ARTICOLI STAMPA BRUXELLES
1.06.1985
Un tifoso "disperso" a
Bruxelles
Gli amici: "Al pullman
non è venuto"- Vane ricerche della moglie in Belgio: "Tra
i morti e i feriti qui non c'è".
Non solo morti e feriti,
ma, nella confusione di Bruxelles, anche dispersi. Marco
Manfredi, 40 anni, di Moncalieri, è partito martedì sera
in pullman con tre amici. Non ha più fatto ritorno. I compagni
di viaggio, nel caos, lo hanno visto per l'ultima volta
a quindici minuti dall'inizio della partita. Poi è svanito
nel nulla. Manfredi, autista all'ospedale Santa Croce di
Moncalieri, è sposato, ha una figlia di 17 anni, e vive
in vicolo (omissis). Raccontano i parenti: "è partito con
un collega, Giovanni Deva, e due conoscenti di Trofarello.
Di lui non sappiamo nulla da quando lo abbiamo accompagnato
alla partenza dei pullman. La moglie, Rosita, è andata a
Bruxelles per trovarlo. Lo ha cercato tra i morti, tra i
feriti. Nessuna traccia". La donna è partita ieri mattina
in aereo da Caselle. Racconta Giovanni Deva, 20 anni: "Uno
del nostro gruppetto si è perso già all'entrata, nella confusione.
Siamo rimasti in tre, tra cui Manfredi. Al momento dell'attacco
degli inglesi c'è stato un fuggi fuggi generale, e ci siamo
persi di vista. Ai pullman non è arrivato. L'autista ha
aspettato più di un'ora, e poi siamo partiti. Ieri c'è stata
la conferma ufficiale che Domenico Russo, di Moncalieri,
è morto: i parenti sono andati a Bruxelles e hanno riconosciuto
la salma. Fino all'ultimo momento si erano illusi che fosse
una falsa notizia. Erano convinti che si fosse salvato perché
nella foto pubblicata sulla prima pagina della Stampa avevano
riconosciuto il loro congiunto. La verità, purtroppo, è
che quella foto è stata scattata poco prima che il ragazzo
fosse travolto dal crollo. Buona parte delle persone che
sono state fissate in quell'immagine hanno perso la vita.
Si sono, inoltre, appresi ieri i particolari su come Giovacchino
Landini, il primo morto di Torino di cui si è avuta notizia,
sia finito nel settore Z. II presidente dello Juventus club
di via Bogino, il club che ha organizzato i pullman, spiega:
"è partito con un biglietto verde, dei settori M-N-O. A
Bruxelles era atteso da conoscenti che avevano i posti nel
settore Z. E' arrivato da me, alle 17, nel piazzale dei
pullman chiedendo di cambiarlo, per poter stare con loro.
E io gli ho dato un biglietto grigio della zona Z.
1 giugno 1985
Fonte: La Stampa
ARTICOLI STAMPA BRUXELLES
1.06.1985
"Una decisione che faccia
riflettere tutti non una vendetta utile a nessuno"
di Bruno Perucca
L'annuncio del governo
inglese di tenere le squadre britanniche lontane dalle Coppe
per un anno non esclude provvedimenti severi dell'Uefa.
DAL NOSTRO INVIATO. BRUXELLES
- L'imposizione del governo inglese alle società di non
partecipare alle prossime Coppe europee (decisione, che
il Liverpool aveva già anticipato con l'auto rinuncia in
segno di lutto e di "punizione" per i suoi terribili tifosi)
non ha colto di sorpresa i dirigenti dell'Uefa che si attendevano
una ferma reazione da parte della signora Thatcher. "Prendiamo
atto - ha detto il portavoce della Federazione europea Rothenbuhler
- ma questo non impedirà alla commissione d'inchiesta e
successivamente alla commissione disciplinare di proseguire
prima nelle indagini e quindi in una decisione che verrà
presa comunque a tempi brevi". Una cosa è la sanzione "politica",
quindi, un'altra quella sportiva. L'Uefa si propone, parallelamente,
di approfondire lo studio già in corso di ogni possibilità
di sconfiggere la violenza negli stadi. Un problema annoso
che la tragica notte dello stadio Heysel ha reso drammatico,
terribile. Già dieci anni or sono il vecchio presidente
del Real Madrid, don Santiago Bernabeu, diceva: "Con le
Coppe europee abbiamo costruito un giocattolo bello ma terribile,
diventato così importante da essere un oggetto mortale".
E vale la pena di ricordare che già giovedì mattina Bobby
Charlton, il non dimenticato capitano della Nazionale inglese,
aveva detto: "Quello dell'Heysel è un dramma che indigna
e rattrista. Non voglio precedere le decisioni che verranno
prese a Londra, ma io credo che il nostro calcio in generale
meriti una severa punizione. Onestamente non meritiamo di
partecipare alle prossime competizioni europee in queste
condizioni". A Bruxelles ci sono ancora due componenti della
commissione d'inchiesta dell'Uefa, il portoghese Silva Resende
e il tedesco Günther Schneider (commissario di campo mercoledì
sera) che hanno ripetuto le considerazioni di Rothenbulher:
la Federazione europea continuerà il suo lavoro sui fatti
dell'Heysel. Schneider ha commentato: "Quella del governo
inglese è una decisione responsabile, lo sarà anche la nostra".
Le anticipazioni del presidente della Federazione belga,
Louis Wouters, sono per sanzioni Uefa durissime, fino ad
un massimo di tre anni di sospensione a tutte le squadre
britanniche, e cinque al Liverpool. Provvedimenti duri,
che la scelta della signora Thatcher forse addolcirà. Ma
da Parigi, dov'è rientrato giovedì sera, il presidente della
Federazione europea Jacques Georges avverte: "La nostra
non sarà certo una vendetta, nessuna decisione potrà mai
lenire il dolore delle famiglie delle vittime alle quali
sono molto vicino. Però siamo ad una svolta, occorre un
esempio, un qualcosa che faccia riflettere prima i club
e quindi i loro supporters". Così il comportamento bestiale
dei più incontrollabili tra i fans del Liverpool, "colpisce"
anche i "cugini" dell'Everton, campioni d'Inghilterra, oltre
alle altre squadre di Coppa, alcune delle quali peraltro
avevano già portato in "giro per l'Europa dei tifosi temibili,
pericolosi. La disperata Liverpool che già si attaccava
al football per essere ancora grande e temuta, perde la
cittadinanza europea. Il calcio inglese avrà cosi tempo
per riflettere. Ma sarebbe un errore perdere l'occasione
per riflettere tutti. La vicenda britannica è la punta di
un iceberg, ma la base non è soltanto Oltremanica.
1 giugno 1985
Fonte: Stampa Sera
ARTICOLI STAMPA BRUXELLES
1.06.1985
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